Liberty a Roma

Lo stile Liberty si presenta a Roma con manifestazioni più circoscritte e sopratutto stilisticamente meno definite, nonostante che il ruolo di capitale e il particolare fervore edilizio connesso a importanti circostanze celebrative, quali il cinquantenario dell’unità nazionale nel 1911, offrono spazi altrove inimmaginabili a nuovi edifici pubblici e di rappresentanza, rispetto ad altre grandi città della penisola.

Si può obiettare che ciò si deve anche al ritardo dello sviluppo economico e tecnologico della città. In fin dei conti il liberty è espressione di una cultura modernista che trovò sovente un terreno privilegiato di applicazione nei nuovi materiali frutto di tecnologie avanzate (acciaio, cemento armato). L’osservazione risulta senz’altro fondata se rapportata ai grandi centri industriali del nord Italia, a Torino e sopratutto a Milano. Il fatto è che l’impronta floreale appare meno consistente a Roma che in altre città del meridione, a cominciare da Palermo. In particolare, in quest’ultimo caso, l’affermazione Liberty si deve al ruolo svolto da Ernesto Basile, di gran lunga la più autorevole personalità dell’architettura siciliana, sul crinale dei due secoli. Ci si rende conto, così, che l’immagine sacrificata del Liberty in area romana, che è poi la soverchiante difficoltà ad affrancarsi dalla contaminazione con l’eclettismo storicista, deriva essenzialmente da motivazioni di ordine propriamente culturale o di organizzazione culturale.

A Roma, più che altrove, pesa l’eredità vincolante di un passato che – tanto sul versante classicistico, che su quello rinascimentale e barocco – appare come un ineludibile punto di partenza per reagire a una temperie di incontestabile sfibramento della tensione creativa. Storicismo, dunque, anzi eclettismo, in quanto gli spunti costruttivi e gli elementi decorativi dei vari stili sono assemblati sulla base di variazioni potenzialmente illimitate.

D’altro canto, manca in città una personalità sufficientemente forte da interpretare e accreditare i fermenti innovativi che pure si manifestavano distintamente in Francia, in Belgio, in Inghilterra, in Germania, nella Mitteleuropa ancora aggregata dall’impero asburgico. Non solo, ma mancano delle scuole, dei punti di incontro di artisti, nel cui ambito le novità possano essere conosciute, dibattute, infine pubblicamente sostenute e diffuse. Tale carenza è, del resto, ribadita dal contesto socio-economico: dopo aver assunto di rango di capitale dello Stato unitario, Roma diventa una grande città, ma non una città moderna. A differenza delle altre capitali europee e della stessa Milano, essa non conosce un processo di industrializzazione, e quindi è privata tanto di una borghesia imprenditoriale che di una classe operaia organizzata.

Lo sviluppo industriale è accuratamente evitato alla città, un po’ sulla base di grossolane istanze politiche, per impedire la formazione di focolai «socialisti» e «sovversivi»; un po’ anche per l’aulico ruolo ideologico che le viene riservato, fosse quello di centro del cattolicesimo, ovvero della laica «terza Roma». In entrambi i casi, si verifica un’alleanza di interessi e di fatto tra gli ambienti cattolici e conservatori e quelli liberal-nazionali. Un’alleanza sanzionata dalla convergenza affaristica dell’aristocrazia «nera», che conserva il proprio rango sociale alienando vantaggiosamente il patrimonio di aree divenute edificabili, e i gruppi finanziari e propriamente speculativi, calati in città dal nord della penisola. Il risultato è lo sviluppo di una metropoli, per più versi torpida, fondata sulla burocrazia.

Un freno al rinnovamento architettonico deriva anche dalle allora potenti commissioni edilizie municipali, dominate da esponenti della cultura eclettica (come Pio Piacentini e Gaetano Koch), che cercano di ostacolare la diffusione di un linguaggio modernista. Con l’effetto di neutralizzare quegli spunti stimolanti, che derivano dalla coscienza del ritardo rispetto al quadro internazionale. Come quando, nel 1878, l’architetto Giovan Battista Basile — padre di Ernesto — è inviato all’Esposizione di Parigi, per un’indagine su modelli e indirizzi della moderna edilizia, da accreditare in Italia.

Negli anni Novanta, alcuni segnali di novità provengono dall’aggiornamento didattico praticato dalla scuola annessa al Museo Artistico Industriale. Ma soprattutto dalla fondazione — proprio nel 1890 — dell’«Associazione Artistica fra i Cultori di Architettura», un sodalizio volto a rivendicare il posto d’onore dell’architettura nel quadro estetico dell’epoca. La finalità precipua del gruppo, più che professionale, è culturale, mirando allo studio, alla tutela e alla conservazione dei monumenti e del patrimonio artistico.

Tra i più attivi promotori dell’associazione – ne diventerà in seguito segretario – è Giulio Magni, cui va probabilmente attribuito il ruolo di primo introduttore a Roma – col progetto dell’edificio del Parlamento, nell’ipotesi iniziale del suo collocamento a Magnanapoli – delle tematiche Liberty. Sull’onda della crisi edilizia, Magni si trasferisce per un decennio (1895-1904) a Bucarest, col ruolo di architetto capo della municipalità. Lì ha modo di svolgere una vastissa attività progettuale, ma soprattutto di entrare in contatto con le esperienze Jugenstil. Tornato a Roma, è ancora un suo progetto – nel concorso per il palazzo dell’Arte in occasione dell’Esposizione del 1911 – a interpretare con coerenza ed eleganza il linguaggio e le istanze secessioniste. Gli è preferito il progetto di Cesare Bazzani, risolto nella chiave più tranquillizzante, per la commissione giudicatrice, di un eclettismo classicheggiante.

Lunghissima fase attuativa ha l’opera più nota di Magni, il ministero della Marina, terminato solo nel 1928, e che è per più versi già fuori della temperie floreale.

La maggiore impresa del Liberty romano è innegabilmente quella legata alla costruzione della nuova ala del palazzo del Parlamento, progettata con grande professionalità da Ernesto Basile. Eppure questi, che è il protagonista del Liberty siciliano e una delle figure di maggior spicco dell’architettura floreale in Italia, ci dà del palazzo rigorosamente scandito dalle torri angolari, quasi a voler riprendere l’impianto di un castrum romano o di un castello federiciano, una delle sue prove più tradizionalmente, classicamente composte.

In effetti, assai più che nel repertorio degli edifici pubblici, è nella tipologia signorile della villa, del villino, della palazzina, che il Liberty romano manifesta il meglio di sé. Non si tratta di una circostanza casuale: innanzitutto, la tipologia del «villino» offre la possibilità di un rilancio del mercato immobiliare romano, dopo la grande crisi seguita allo sfrenato boom delle costruzioni, collegato al trasferimento della capitale. I fatti confermaeno gli auspici: il villino apre puntualmente la via all’investimento immobiliare del medio-piccolo risparmio. In secondo luogo, esso va caricandosi di una valenza ideologica, offrendo, in un certo senso, la concretizzazione spaziale, ovvero la monumentalizzazione, del ruolo sociale della media borghesia romana. Oltretutto, la lottizzazione delle splendide ville dell’aristocrazia – a cominciare da quelle appartenute alle famiglie Ludovisi e Patrizi – oltre a costituire degli autentici scempi culturali e urbanistici, offrono luoghi prestigiosi di attuazione. Tra i progettisti, figurano nomi di consolidata eco nazionale, come Basile e Sommaruga; o stranieri come il tedesco Wille; o, comunque, il meglio dell’ambiente professionale cittadino: Magni, appunto, Garibaldi Burba, Ezio Garroni, Giovanni Battista Milani.

Ma anche in tale settore, le istanze moderniste devono fare i conti col retaggio storicistico: contraddicendo una motivazione fondamentale del Liberty, quest’ultimo era costretto a convivere e mescolarsi con eclettismo, e neppure esclusivamente con quello di impronta neo-medievale quanto piuttosto con un revivalismo rinascimentale e barocco.

Analogamente, l’assunzione del linguaggio secessionista avviene recependo della variata eredità di Otto Wagner il versante più classicamente composto, interpretato dal raffinato linearismo di Joseph Hoffmann, carico di suggestioni pre-Déco. È probabilmente arbitrario e inesatto interpretare la «Secessione» hoffmanniana «come riduzione classicista delle poetiche moderniste», eppure è proprio questa la disposizione in cui sovente essa è recepita in ambito romano.

In tale contesto, grande, rilievo assumono alcune riviste che si fanno interpreti del gusto floreale. Innanzitutto “Novissima”, pubblicata prima a Milano e poi a Roma, tra il 1901 e il 1911, con un taglio artistico-letterario, che trae l’ispirazione dal celebre periodico viennese Versacrum. Più che sul versante letterario, la sua influenza si esercita sul piano artistico, accreditando il gusto Liberty tanto con le vivacissime pagine pubblicitarie che, soprattutto, con le tanto raffinate illustrazioni di artisti che si riconoscono nella sensibilità modernista, come Mataloni, Terzi, Hohenstein, Nomellini, Innocenti, De Carolis.

Filiazione di “Novissima” – stessa società editrice e amministratore, Edoardo De Fonseca — può considerarsi il quindicinale “La casa”, che inizia le pubblicazioni nel 1908.  Più modesto dal punto di vista editoriale, il periodico assume però un ruolo oltremodo significativo sul tema della casa, avvertito a ragione come fondamentale («estetica, decoro e governo dell’abitazione moderna», è il sottotitolo del periodico). Il programma del rinnovamento di cui si faceva interprete può così riassumersi: «libertà della pianta, sincerità nelle linee costruttive, sobrietà nella decorazione». Il messaggio Liberty, di declinazione secessionista, come si comprende agevolmente, de “La casa” travalica peraltro l’ambito strettamente architettonico, per investire quello delle arti applicate: non, a caso, tra i più fedeli collaboratori della rivista figuravano Duilio Cambellotti, Vittorio Grassi, Umberto Bottazzi, Alessandro Marcucci.  Dall’arte «applicata» all’arte senza aggettivi, per il tramite di personalità versatili e qualitativamente cospicue come Cambellotti, in particolare, e Grassi, il passo è breve.

La situazione artistica a Roma sull’ultimo scorcio dell’Ottocento è, se possibile, ancora più «bloccata» che in architettura. Pressoché egemone era il ruolo della vecchia Associazione degli Amatori e Cultori di Belle Arti, le cui leve di comando erano — in pratica — in pochissime mani: Ettore Ferrari, scultore di vasta fama, consigliere comunale, deputato al Parlamento, direttore dell’Istituto di Belle Arti di Roma, presidente della Giunta Superiore per le Belle Arti del ministero, gran maestro della Massoneria dal 1904 al 1918 (un «asso pigliatutto», come si vede: i giovani artisti si proveranno a far scoppiare il caso, poco edificante); e i pittori, anch’essi assai noti, Giulio Aristide Sartorio e Cesare Maccari, sommersi di pubblici incarichi e di onori.

In questo clima, le novità non sono viste di buon occhio: anche il capolavoro preraffaellita di Burne-Jones, i mosaici dell’abside della chiesa di San Paolo a via Nazionale, sono certo noti ai cultori (specie nell’ambito dell’associazione “In arte libertas”, patrocinata dall’anziano pittore Nino Costa, nelle cui mostre i Preraffaelliti sono regolarmente esposti), ma disertati dal pubblico («Nessuno conosce la bella abside di via Nazionale», lamenta Sartorio negli anni Novanta).

Attorno alla rivista “Cronaca bizantina” e alla personalità carismatica del giovane d’Annunzio, si struttura un ambiente estetizzante e raffinato, che intreccia suggestioni idealistico-simboliste, ma anche decadenti, perfino misticheggianti: De Carolis, Cellini, lo stesso Sartorio in una fase del suo itinerario, ne sono tipici esponenti. Anche qui, naturalmente, la vicenda preraffaellita risulta nota e apprezzata. Come pure le teorie di Ruskin e di Morris, che hanno tuttavia più vasta circolazione: sono altrettanti terreni propizi alla diffusione, seppure prudente e parziale, del Liberty nell’ambiente romano.

L’uomo delle novità e, con ogni probabilità, la tempra più robusta di artista è, in città, Giacomo Balla: ancora operante in un ambito figurativo, applicato alle ricerche divisioniste, è però inquieto, alla ricerca di nuove strade, che gli si apriranno, nel 1910, con l’adesione al movimento futurista. Ma già adesso rappresenta un sicuro punto di riferimento: giovani artisti che faranno presto parlare molto di sé vengono a Roma per conoscerlo e discutere con lui: Umberto Boccioni, Mario Sironi, Gino Severini.

Amico di Balla e impegnato con lui in un’azione di redenzione sociale dell’arte, è un’altra figura centrale della situazione romana: Duilio Cambellotti, poliedrico artista, pittore, scultore, incisore, scenografo, illustratore, operatore a largo spettro nel campo delle arti applicate. In questo caso, non è più lecito parlare di tangenze: Cambellotti, col suo segno arcaico e potente, vive a pieno diritto nella dimensione Liberty, seppure sul versante interpretato dallo Jugendstil viennese.

Per l’ambiente artistico romano, il 1912 costituisce un anno di svolta: i malumori lungamente covati dai giovani artisti nei confronti dell’ossificato sistema di potere, che fa capo all’Associazione Amatori e Cultori di Belle Arti, trovano una forma concretamente operativa.  Un gruppo di una trentina di pittori e scultori capeggiati da Arturo Noci, Camillo Innocenti, Giacomo Balla, Giovanni Prini, Amleto Cataldi, Nicola D’Antino dà vita ad un’associazione che, ricalcando gli analoghi episodi austro-tedeschi, riceve il nome di «Secessione».  Non si tratterà soltanto di un’affinità terminologica, l’ambiente e le mostre della Secessione romana saranno infatti terreni fertili per accreditare in città i modi del Liberty viennese.  Basti ricordare la seconda esposizione, quella del 1914, dove, nella quarta sala, erano presenti Klimt ed altri noti esponenti del modernismo austriaco.

Testo tratto da C.F.Carli, Roma Liberty, 1996, Tascabili Economici Newton

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