La fontana del porto di Ripetta (anche chiamata fontana del Navigatore o dei Navigatori) si trova in piazza del Porto di Ripetta, dove fu trasferita ai primi del ’900 quando venne smantellato il porto fluviale dove si trovava. Continue reading
Porto di Ripetta
Il porto di Ripetta, o porto Clementino, era uno scalo fluviale, realizzato con un’architettura tardobarocca, lungo il Tevere, nell’area antistante alle chiese di San Girolamo dei Croati e San Rocco all’Augusteo, nel Rione Campo Marzio dove oggi è l’attuale piazza del Porto di Ripetta.
(PA300) DA RIVEDERE PER ESTRARRE I BRANI UTILI E BUTTARE IL RESTO
DA RIVEDERE PER ESTRARRE I BRANI UTILI E BUTTARE IL RESTO
Dalla larghezza (o meglio dalla strettezza) della strada che prosegue in leggera discesa verso nord, capiamo che siamo su una strada antica. Qui, sotto i nostri piedi, infatti correva l’antica via Salaria, una strada più antica della fondazione di Roma, l’unica strada consolare che non ha preso il proprio nome né dal console che l’ha realizzata né della località che permette di raggiungere. E sapete perché? Perché quando questa strada nasce non c’erano consoli, e i piccoli villaggi della penisola non avevano nemmeno un nome. Su questo percorso le greggi si spostavano con le stagioni, dai monti della Sabina al mare e viceversa, semplicemente seguendo la sponda sinistra del Tevere.
Un tratturo quindi, che si chiama così perché allora il litorale laziale era ricco di stagni d’acqua salmastra, dove era possibile raccogliere il sale. E i mercanti facevano affari d’oro acquistandolo lì e portandolo, percorrendo questa strada, nelle zone interne della penisola, dove questa sostanza era preziosa per la conservazione invernale degli alimenti, come carni insaccate e formaggi.
Allora di strade non ce n’erano molte e la forza dei villaggi sui sette colli, che si unirono nell’ottavo secolo a.C. per formare l’Urbe, Roma, stava proprio nel poter controllare sia il guado sul fiume, in corrispondenza dell’isola Tiberina, sia il tratto di questa strada che seguiva la sponda del grande fiume.
L’antica Salaria passava sotto l’Aventino, il Palatino e il Campidoglio, risaliva la valle tra il Quirinale e il Viminale, superava l’altipiano che oggi chiamiamo quartiere Pinciano-Parioli e arrivava qui, dove siamo noi ora, dove proseguiva verso nord, seguendo il percorso dell’attuale via di San Filippo Martire, e si inoltrava a destra in quello che ora è il parco di Villa Ada verso Monte Antemne per poi scendere giù al guado sull’Aniene, per continuare verso la Sabina. Nel folto della vegetazione di Villa Ada, si può vedere ancora oggi una “tagliata” nel tufo che testimonia la presenza dall’antica strada.
Proprio da qui quindi sono passati i Sabini che furono invitati a Roma per le celebrazioni in onore del dio Conso e da qui ripassarono la sera, ammaccati e senza le donne più giovani, avendo vissuto sulla loro pelle l’episodio oggi noto col nome di Ratto delle Sabine. Tra di loro, c’erano gli abitanti di Antemnae, una città che sorgeva a due passi da qui, sull’altura che domina la confluenza del Tevere con l’Aniene (ante amnes, appunto) e che ancora oggi chiamiamo Monte Antemne. Come noto, nella guerra che ne scaturì, i Sabini sono sconfitti e, per secoli, la città diventa un avamposto di Roma, dotato di una possente cinta fortificata in grandi blocchi di tufo e di un tempio, come testimonia il ritrovamento di una splendida antefissa, raffigurante la testa di Giunone Lanuvina.
A partire dal III secolo a.C. Antemnae viene progressivamente abbandonata per lasciare il posto a una grande proprietà della gens Acilia. Non avendo più senso che la via Salaria passasse per l’antica città (che non esisteva più), i Romani progettano, per questa strada, un nuovo percorso. Tra l’attuale piazza di Priscilla e l’Aniene e, dov’erano rupi scoscese impraticabili, con il lavoro di migliaia di schiavi è realizzato un enorme sbancamento che apre un percorso “carrabile” e un po’ più avanti, dove era il guado sul fiume, è gettato un ponte. Le tracce dell’antico Ponte Salario sono ancora visibili sotto il moderno manufatto. Nasce così la Salaria Nova: cioè la via Salaria che conosciamo oggi e che, in modo molto più rapido collega la Sabina con Roma. Sia la vecchia Salaria che la nuova superavano le Mura Serviane a Porta Collina (che era presso via XX Settembre, dove oggi è il Ministero dell’Economia). Con la realizzazione delle mura dell’imperatore Aureliano, nel terzo secolo d.C., per la Salaria Nova è costruita Porta Salaria mentre per la Salaria Vetus è aperta Porta Pinciana.
Monte San Filippo
Con le mura nasce una netta separazione tra la città, ben difesa, e la fascia di territorio esterna alle mura, denominata “suburbio”, aperta alle incursioni dei cosiddetti barbari e quindi, per secoli, spopolata e insicura. Le vie consolari, tranne l’Appia e la Cassia (o Francigena, se volete), sono poco frequentate e la Salaria Vetus in particolare, che da Porta Pinciana arriva qui sulle attuali via Pinciana, via Paisiello, via Emilio de’ Cavalieri, viale Rossini, piazza Ungheria e viale Romania, diventa uno stradello campestre. In particolare, il tratto della vecchia strada da via Paisiello a qui, per secoli prende il nome di vicolo di San Filippo. Ma chi è questo San Filippo?
Filippo era il primogenito di Felicita, una ricca vedova romana, uccisa con i suoi sette figli per essersi rifiutata di rinnegare la sua fede cristiana. Le loro spoglie sono nascoste dai confratelli in un cunicolo sulla Salaria Nova, nucleo delle catacombe di Felicita, visitabili il 23 novembre in via Simeto 2 (dove c’è il mercato rionale). In queste catacombe riposavano anche le spoglie dei figli di Felicita, ma non quelle di Filippo, che erano conservate e venerate nella catacombe di Priscilla, vicino a un ingresso secondario, su un colle dall’altra parte della Salaria, allora chiamato Monte delle Gioie. Su questa piccola altura, due secoli dopo, papa Silvestro I vuole essere sepolto per stare vicino ai martiri e si fa edificare la piccola basilica catacombale che possiamo vedere ancora oggi (seppur completamente ricostruita). Papa Silvestro è colui che, secondo una fake news durata secoli, aveva convinto Costantino il Grande a convertirsi e scrivere l’Editto che liberalizzò la religione cristiana.
Nei primi secoli del Cristianesimo i pellegrini, uscendo da Porta Pinciana e percorrendo la Salaria Vetus, visitavano le catacombe di Panfilo (sulla attuale via Paisiello) e altre catacombe presenti nell’area dei Parioli, come quelle quelle di Sant’Ermete in via Bertoloni. Poi, seguendo la piccola strada che passava qui dove siamo noi, continuavano lungo l’attuale via San Filippo Martire e attraversavano l’attuale Villa Ada, fino a raggiungere il Monte delle Gioie. Entravano nella cappella di San Silvestro e da lì nelle Catacombe di Priscilla per pregare sulla tomba di Filippo e di altri martiri. I pellegrini tornavano poi in città lungo la Salaria Nova, l’attuale via Salaria, fermandosi a pregare nelle numerose catacombe presenti lungo questa strada, come le Catacombe dei Giordani, quelle di Trasone e quella di Santa Felicita di cui abbiamo già parlato. Questo pellegrinaggio, svolto dai cristiani dopo l’Editto di Costantino, ci spiega perché questa strada da via Paisiello al Monte delle Gioie, si è chiamata per secoli vicolo di San Filippo e perché tutta quest’area, oggi chiamata genericamente la “zona di piazza delle Muse”, per secoli è stata chiamata Monte San Filippo. L’unica traccia ancora presente nella toponomastica moderna è via di San Filippo Martire, ormai un vicolo cieco, in quanto la realizzazione della grande tenuta Savoia nell’Ottocento (l’attuale Villa Ada), ha tagliato ogni collegamento tra questa zona e la via Salaria dove Filippo era sepolto.
Siamo in particolare in un piccolo slargo davanti al grande cancello di una villa. Una graziosa madonnella, sul muro rosa sembra darci la sua benedizione. Questo tratto dell’antico vicolo di San Filippo, in cui siamo noi ora, è oggi intitolato alla principessa Mafalda di Savoia, secondogenita di Vittorio Emanuele III, Re d’Italia. Sul lato della via verso via Salaria, vediamo l’ingresso della villa regalata dal re alla figlia nel 1925, in occasione del suo matrimonio con il principe d’Assia, chiamata Villa Polissena in ricordo di una antenata Savoia. La madonnella vicino al cancello è stata messa lì dopo la guerra, in memoria della principessa Mafalda, morta nel campo di concentramento di Buchenwald nel 1944. SVILUPPARE Infine ecco la strada che continua con il nome di via di San Filippo Martire.
Di fronte all’ingresso della villa c’è un edificio rossiccio, senza pretese. E’ oggi la Casa del Santo Rosario, un convento delle monache Dorotee che affittano camere a studenti e turisti. Sulla porta c’è una piccola scritta: Villa Felicetti. Chi sono i Felicetti lo vedremo più avanti. E’ delle monache anche il piccolo giardino posteriore, invisibile dalla strada dove siamo noi, che arriva a via Tommaso Salvini dove oggi c’è un benzinaio.
Fermata piazza Bligny
Ma è arrivato il momento di muoverci e allora incamminiamoci verso piazza Bligny, una piazza in cui tre vie si infilano in viale Romania: da nord via Mafalda di Savoia, da dove veniamo noi, poi via Tommaso Salvini proveniente da piazza delle Muse e infine, verso ovest, via di Villa San Filippo. Andiamo al centro della piazza e guardiamoci intorno. Sul lato verso Villa Ada vediamo un edificio basso e lungo. E‘ il casino nobile di un’antica vigna che gli Assia, figli di Mafalda, hanno donato dopo la guerra all’Arma dei Carabinieri.
Stretto tra via Mafalda di Savoia e via Salvini, c’è un grande portale tinteggiato in un rosa acceso. Il portale non è antico, è ottocentesco, ma è l’ingresso di quella che fin dal Seicento era una grande tenuta nobiliare, Vigna Scarlatti, una proprietà talmente grande che da qui arrivava giù al vicolo dell’Acqua Acetosa e sulle rive del fiume (dei viali lungo il Tevere, allora non c’era traccia). Gli Scarlatti, toscani, si estinguono nella famiglia Del Grillo (quella di Onofrio marchese del Grillo, famoso per i suoi colossali scherzi) e infine nei marchesi Capranica, noti per aver realizzato nel loro palazzo a Campo Marzio il Teatro Capranica (che è stato per molto tempo il principale teatro di Roma). Sono queste le famiglie che terranno questa grande proprietà per due secoli.
Nell’Ottocento la tenuta è nota come Villa San Filippo, come leggiamo sul portale, ma dove è il suo casino nobile? In realtà lo abbiamo già visto a via Mafalda di Savoia: è il palazzetto delle monache Dorotee, con ingresso nella piazzetta da cui siamo partiti, dipinto dello stesso colore del portale davanti a noi. Sul portoncino, vi ricordate, c’è una piccola targa in pietra, con scritto Villa Felicetti, che ci indica il nome degli ultimi proprietari della grande villa. I Felicetti infatti acquistano la proprietà a inizio Novecento e sono loro a lottizzarla. Per realizzare l’asse del nuovo quartiere, l’attuale via Tommaso Salvini, è demolito un oratorio dedicato a San Filippo che era qui, sul confine della proprietà Scarlatti. La prima palazzina realizzata dai Felicetti è quella che si affaccia su piazza Bligny che segna l’ingresso del nuovo quartiere e che, con il suo grande stemma al terzo piano, ci indica la data di costruzione: 1928. Ed è ai Felicetti che, poco dopo il 1920, sono espropriati dei terreni a favore di alcune cooperative. Tra esse, quella degli “Invalidi della prima guerra mondiale” che costruiscono i villini che vediamo ancor oggi su via Adelaide Ristori. Se non avete mai vista questa piccola via a ferro di cavallo (inizia e finisce su via Salvini) andatela a vedere: è una delle pochissime strade romane in cui potete vedere solo villini.
Ma quando questo quartiere inizia ad accogliere i suoi abitanti qui siamo in aperta campagna, lontano da tutto. Piazza Ungheria è ancora un polveroso incrocio senza servizi da offrire e la zona è talmente remota che nel 1924 da queste parti, verso piazza delle Muse, è innalzata una grande antenna per diffondere le prime trasmissioni radiofoniche italiane, registrate nello studio appositamente allestito a Palazzo Corrodi in via Luisa di Savoia.
Nel 1929 finalmente, qui arriva il tram. Prima le linee 18, 31 e 32, e poi la linea 4, che da piazza Indipendenza arriva qui, a piazza Bligny. Per tornare indietro, le vetture percorrono l’anello via Salvini, via Morelli, vicolo Emiliani (oggi via Eleonora Duse) e via di Villa San Filippo dove è fissato il capolinea. Sulla tabella al capolinea però non c’è scritto il nome della via ma “Villa Felicetti”, il toponimo con cui allora tutta quest’area era nota. La linea 4 sarà poi servita da filobus, che svolgeranno il servizio fino al 1959.
Prima di lasciare Villa San Filippo vogliamo raccontare come nasce il casale basso e lungo che vediamo attraverso il portale e che ci aveva già incuriosito quando lo avevamo visto venendo su da via Mafalda di Savoia: è infatti una costruzione veramente strana per Roma e per questo quartiere in particolare. La spiegazione ce l’ha data un anziano e simpatico signore che abita da queste parti. Alla fine della guerra qui, tra via Mafalda e via Salvini, era il giardino di villa Felicetti (la grande palazzina degli anni settanta che vediamo in secondo piano, allora non c’era) e qui per diversi anni è stato acquartierato un reparto di marines. Sono loro che hanno costruito una fila di baracche in legno da utilizzare come alloggi e magazzini, che poi i proprietari del suolo hanno regolarizzato, ricostruito e trasformato in uffici.
Due parole sulla toponomastica e in particolare sul titolare di questa via davanti a noi. Siamo nel “quartiere degli attori” e anche Tommaso Salvini, milanese, è stato un attore. Ma se andate al Gianicolo troverete il suo busto insieme agli eroici garibaldini. A vent’anni infatti è stato uno dei difensori della Repubblica Romana. A destra di via Tommaso Salvini, c’è via di Villa San Filippo, una breve e rettilinea strada che costeggia a sinistra la caserma dei Carabinieri. Qui iniziava un antico stradello campestre, il Vicolo di Schateau, che portava appunto all’ingresso della vigna di Giacomo Enea Duchateau e ad altre vigne vicina. La vigna Duchateau è poi diventata Villa Emiliani il cui nome è rimasto in una strada più avanti. A inizio Novecento, questa era anche la strada per raggiungere Vigna Filonardi, che era dove oggi è la clinica Quisisana e il campo di tiro al piccione, che era nei campi affacciati sull’Acqua Acetosa, dove ora è l’esclusivo circolo “Antico Tiro a Volo”.
In piazza Bligny, c’è un elegante bar d’angolo che ci ricorda che, nel 1947, all’inizio di via di Villa San Filippo apre una modesta latteria con due vetrine. I proprietari sono i Piazza: tre fratelli e una sorella, tutti regolarmente sposati, vende latte e burro e si e faceva qualche caffè per i clienti dei negozi accanto. Il caffè allora si andava a prendere all’Hungaria, all’Euclide e al bar delle Muse nelle omonime piazze.
Un giorno, i proprietari decidono di fare gelati, dei buoni gelati. Non si sa chi dei fratelli ebbe l’idea, ma di sicuro si rivelò una trovata geniale. Da allora infatti i ragazzi-bene che bighellonavano nelle tre piazze dei dintorni cominciano a frequentare il baretto per prendere il gelato e la sua fama si diffonde nel quartiere. Ma per i ragazzi, il fatto che il bar fosse senza nome è un problema per darsi un appuntamento. E chiamarlo “il gelataio di via di Villa San Filippo” è semplicemente improponibile! Ma un nome si trova: la gelateria, aperta fino a notte fonda, alle ore piccole diventava punto di ritrovo di persone ‘stravaganti’, come si diceva allora, gay compresi. In quegli anni però, la morale non permette di pronunciare la parola “omosessuale” né tanto meno “frocio”, un epiteto dispregiativo e volgare, e, per indicare la gelateria, il nome “dei tre frocetti” incomincia a diffondersi tra i ragazzi dei Parioli. Piano piano, anche le ragazze incominciarono a utilizzare questo nome: il diminutivo infatti era meno volgare e, forse, faceva pure chic. Un nomignolo forse non troppo politically correct, ma indovinatissimo perché in poco tempo diventa utilizzato da tutti, compresi i giornalisti che per decenni raccontano aneddoti e storie di questa gelateria. La leggenda sull’origine di questo strano nome è però un’altra. Un giorno entra nel locale affollato un ragazzo che chiede un gusto particolare. “Non so se oggi l’hanno fatto – risponde uno dei tre fratelli – aspetti che domando a mia moglie” (le donne della famiglia, infatti, lavoravano invisibili nel retrobottega). Si affaccia alla porta del laboratorio e, vedendo suo fratello che era per caso lì, ad alta voce chiede: “Carlo! c’è il …”. Apriti cielo! Quei ragazzi cominciano subito a immaginare torbide relazioni omosessuali tra i gestori.
La clientela della gelateria aumenta e diventa sempre più eterogenea e internazionale e il successo del nome, insieme a qualità e varietà dei gusti offerti e il loro duro lavoro fa la fortuna dei fratelli Piazza. In un decennio la gelateria si allarga e occupa i locali adiacenti, aprendo le sue vetrine su piazza Bligny. Negli anni settanta nella serata, la calca intorno al bancone è tale che qui, per evitare discussioni e perfino risse tra gli avventori, sono utilizzati, per la prima volta a Roma, “i numeretti”: sul marciapiede c’è la fila di persone in attesa del proprio turno, nella strada, ingorghi di auto e moto. Numerosi sono i clienti illustri della storica gelateria: dai personaggi dello spettacolo che abitano qui vicino, all’alta borghesia. “Dai Bulgari, ai Fendi, ai De Sica, ai Rossellini, erano tutti clienti”, racconta la, figlia di uno dei fondatori, sfogliando un ingiallito album dei ricordi. Tra le foto una magnifica Silvana Mangano, la sedia preferita di re Farouk, Mina in abito da sera, un articolo addirittura del New York Times e un assegno di Fellini che, spiega la proprietaria, “pagava sempre così, mai in contanti”.
Con il successo arriva la concorrenza e un’altra gelateria è aperta qui dietro, a meno di cento metri da qui su via Eleonora Duse. Il proprietario è un certo “Giovanni” che da al locale il suo nome. In quegli anni la qualità di entrambe le gelaterie è sopraffina e si creano lunghe discussioni tra gli affezionati avventori su quale delle due sia la migliore. Quando le gelaterie artigianali cominciano a diffondersi nel centro storico e in altre parti di Roma, il fatturato di entrambe le gelaterie cala e, nel 2018, i fratelli Piazza decidono di abbassare le serrande per sempre. La sera prima della chiusura, erano in tanti, tutti commossi, a gustare l’ultimo gelato dei tre frocetti, nel locale pariolino ormai entrato nella storia della mondanità romana di quegli anni.
Due parole sul nome della piazza in cui siamo: Bligny è una cittadina francese tra Parigi e Lussemburgo, a nord della regione dello Champagne. Lì, nel 1918, avvenne una battaglia storica: la “Seconda Battaglia della Marna”, detta anche “Battaglia di Bligny”, a cui partecipò un contingente italiano di 25.000 uomini. I fanti italiani assolsero eroicamente il loro compito di difesa delle posizioni e il sacrificio fu pesantissimo, oltre 4000 morti. Ma la resistenza di tutto il fronte alleato sulla Marna significò l’inizio della sconfitta tedesca nella Prima Guerra Mondiale.
Parte 2
Attraversiamo la piazza per imboccare viale Romania. Sull’imponente edificio davanti a noi leggiamo COMANDO GENERALE ARMA DEI CARABINIERI. L’edificio è il vertice di un vasto complesso che occupa buona parte dell’isolato davanti a noi, tra via di Villa San Filippo e via Nino Oxilia. La caserma è intitolata ad Azolino Hazon, comandante generale dell’Arma nel 1943 quando accorse a capo dei suoi carabinieri a San Lorenzo dopo il primo bombardamento americano per organizzare i soccorsi e trovò la morte sotto le bombe del secondo attacco. Nel giugno del 1944, quando arrivano gli americani e Roma è liberata, tutti i comandi dei Carabinieri rioccupano le sedi impiegate fino a un anno prima. Per il Comando Generale dell’Arma, invece, la vecchia sede è insufficiente e non è facile trovarne un’altra adatta. Solo all’inizio del 1953, si decide di realizzare una nuova sede nell’area della vecchia Caserma Pastrengo ai Parioli, da decenni sede romana dell’Arma di Cavalleria. Nel 1954 è posata la prima pietra e, meno di un anno dopo, la nuova caserma dei Carabinieri è inaugurata. La facciata è caratterizzata da un avancorpo centrale in travertino, una specie di masso ciclopico a simboleggiare la granitica saldezza dell’Arma. In basso, il grande portale in peperino. Ai lati, separate da due fasce verticali rivestite di tufo, ci sono due ali simmetriche con colonne giganti disegnate da mattoni rossi. Lungo via Nino Oxilia poi, vediamo un altro corpo sporgente: un severo parallelepipedo, rivestito in travertino, destinato agli uffici del Comandante.
Nel grande terreno lungo via Oxilia, dove erano i campi di addestramento della cavalleria, sono state realizzate palazzine per alloggi dei Carabinieri. Della Caserma Pastrengo, invece, rimasero le scuderie e il maneggio coperto, la cosiddetta “cavallerizza”, in quanto continuarono a essere di stanza qui i Carabinieri a cavallo che erano già acquartierati nella vecchia caserma con gli altri squadroni di Cavalleria. Il Quarto Reggimento dei Carabinieri è oggi l’ultimo reggimento delle Forze Armate Italiane in cui ogni uomo ha un cavallo. Ed è quello che fornisce i picchetti d’onore al Quirinale e alle altre cerimonie ufficiali e che si esibisce nello spettacolare carosello che chiude ogni anno il Concorso ippico di piazza di Siena. Negli anni Novanta, il Reggimento è stato trasferito a Tor di Quinto, ma gli abitanti meno giovani della zona ricordano ancora, con nostalgia, la rapida sfilata dei cavalieri che percorrevano viale dei Parioli e viale Rossini per andare ad allenarsi al Galoppatoio di Villa Borghese con la loro “mascotte”, la cagnetta Trombetta, poi Birba e poi Lady.
In tutte le città italiane c’è (o c’è stata) una Caserma Pastrengo. Questa località vicino a Verona, insieme a Goito, è una delle battaglie vinte dai Piemontesi nella prima guerra d’indipendenza, prima che gli austriaci di Radetzky si riorganizzassero e li respingessero indietro. In particolare Pastrengo è rimasto un mito per la cavalleria dell’esercito italiano e per i Carabinieri. Nel 1848, il re Carlo Alberto si sta spostando verso il villaggio di Pastrengo, quando le vicine truppe austriache iniziano a muoversi. Il comandante dei Carabinieri a cavallo della scorta reale intuisce il tentativo di accerchiamento attuato dal nemico e ordina immediatamente la carica. Al grido «Savoia!» 280 cavalieri, sciabole alla mano, caricano per tre volte gli austriaci che, sorpresi, ripiegano. A Roma, dalla fine dell’Ottocento, la caserma della Cavalleria, la Caserma Pastrengo occupava una grande area dei Parioli da via di San Filippo fino a viale dei Parioli, tra via Oxilia a via Castellini. La fascia di terreno su viale dei Parioli è smilitarizzata solo negli anni Trenta. Nasce così via Picardi, sorgono gli edifici INCIS su questa via e, successivamente, le palazzine su viale dei Parioli: quella dove c’è Gargani, da una parte, e quella dove era Righetto, dall’altra.
Ma torniamo alla nostra passeggiata su viale Romania. A sinistra della caserma dei Carabinieri, inizia via Nino Oxilia, una strada rettilinea che porta a viale dei Parioli. Oxilia, torinese, è stato giornalista, scrittore, poeta, regista. E’ l’autore dell’inno goliardico che, successivamente riadattato, diventerà “Giovinezza”, uno dei più famosi inni del regime fascista. Muore a soli 28 anni, nel 1917, falciato dallo scoppio di una granata sul Monte Tomba.
Faceva parte degli irredentisti, personaggi che hanno speso la propria vita e sono morti per la liberazione dalla dominazione straniera dei territori italiani, a partire da Trento e Trieste. Sono intitolate a loro tutte le strade a destra di viale Parioli, scendendo fino all’Acqua Acetosa: Castellini, Borsi, Stuparich, Sant’Elia. Ma anche Slataper, Locchi, Fauro, Caroncini. Tra di essi c’era pure Umberto Boccioni, il pittore che tutti conosciamo.
Tra via Oxilia e viale Romania si staglia contro il cielo un grande corpo, curvo, bianco, perforato da decine di grandi finestre tutte uguali tra loro. E’ la facciata nord della caserma Slataper, di cui parleremo più avanti. Avanziamo su viale Romania e fermiamoci all’incrocio con una piccola traversa a sinistra che corre stretta tra due muri. Svoltiamo su questo vicolo e percorriamo qualche decina di metri. E’ via del Canneto, una piccola strada senza uscita che porta al Casale Renzi. Non molto è cambiato da quando si chiamava vicolo del Canneto, uno stradello che per secoli ha collegato il vicolo di San Filippo, dove siamo noi ora, con la via Salaria.
Se avanziamo sul vicolo, dopo pochi passi e avremo la sensazione di essere tornati indietro di secoli. Questo infatti è uno dei pochi esempi rimasti a Roma di “strada murata”: viottoli del suburbio che correvano solitari tra i muri di vigne e ville di famiglie nobili e istituti religiosi. Su via del Canneto, un po’ più avanti a destra, si vede il grande scavo fatto per realizzare un parcheggio su via Panama. Avevano iniziato i lavori sperando in una autorizzazione che però non è mai arrivata. I lavori sono stati interrotti, il cantiere è abbandonato da anni e probabilmente la LUIS rileverà tutto.7
In fondo al vicolo c’è il Casale Renzi, un edificio oggi gestito dai Carabinieri, in cui sono ospitate persone che vengono a Roma per incarichi temporanei di alto livello istituzionale. La Fornero, per esempio, abitava lì quando è stata Ministro del Lavoro nel governo Monti. Nel terreno all’angolo tra via del Canneto e viale Romania, è stata realizzata una sottostazione elettrica sotterranea dell’ACEA. Negli scavi sono state trovati percorsi sotterranei, forse vie di fuga predisposti per i Savoia, forse cave di pozzolana o ancora cunicoli catacombali che collegavano le catacombe dei Giordani, che si estendono sotto Villa Ada, con le vaste Catacombe di Sant’Ermete, che hanno il loro ingresso su via Bertoloni e si estendono da via Siacci a viale dei Parioli. Sono gli stessi cunicoli che hanno causato una serie di cedimenti nel terreno qui vicino, al Parco Rabin, costringendo così il Comune a recintare l’area e tenerla chiusa da anni.
Siamo di nuovo su viale Romania e avanziamo fino all’incrocio dove, a destra, inizia via Slataper. All’angolo, c’è la Caserma Slataper, oggi sede del Comando Territoriale di Roma dell’Esercito Italiano. Il suo ingresso è protetto da una imponente torre a pianta ellittica, perno architettonico di tutto il complesso. La grande caserma ha una pianta approssimativamente triangolare e prende tutto l’isolato tra viale Romania, via Slataper e via Oxilia. La Caserma Slataper è stata realizzata su progetto di Vittorio Cafiero, allora trentacinquenne, col contributo di Pietro Lombardi, utilizzando i materiali tradizionali dell’architettura romana: mattoni, tufo, travertino. La caserma nel 1936 prende il posto della vecchia Caserma Mussolini ed è la nuova sede del Comando della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale, le Camicie Nere. Le scritte appena visibili nella fascia bianca in alto, sia sull’edificio che sulla torre, inneggiano al fascismo.
Ma vediamo cosa ha di speciale questo edificio. All’interno della torre davanti a noi, c’erano dei grandi ambienti, decorati con grandi immagini e simboli del periodo fascista e illuminati, come possiamo vedere dall’esterno, da piccole finestre quadrate delle stesse dimensioni dei blocchi di tufo del rivestimento. Sappiamo che le pareti di queste sale erano state decorate da diversi artisti ma la damnatio memoriae del dopoguerra nei confronti del regime colpisce anche questo edificio: tutte le decorazioni sono distrutte e le sale della torre diventano anonimi ambienti della caserma. Al piano rialzato, c’era la Sala del Rapporto, alta 8 metri e decorata con una grande immagine di Mussolini con la divisa della Milizia e altri dipinti murali di Mario Tozzi. Al livello superiore, era situato il Sacrario della Milizia, una grande sala interamente rivestita con mosaici di Angelo Canevari, autore tra l’altro di numerose opere di arte musiva al Foro Italico (nella Piscina, per esempio) e alla Casa della Gioventù Italiana del Littorio (GIL) a Trastevere in via Induno (oggi cinema Nuovo Sacher). Su un gradone al centro della sala, era un altare in marmo nero, con una quinta retrostante dove erano incisi i nomi dei caduti della Milizia.
Nei primi anni Novanta, durante alcuni lavori di risistemazione di questa sala, sono casualmente scoperte tracce dell’opera di Angelo Canevari. Si fanno dei saggi sulla parete fino all’esito finale: sotto 5 centimetri di intonaco, il mosaico originale è praticamente intatto! L’altezza originaria della sala è ripristinata ed è effettuato un completo restauro che scopre il grande mosaico sul tutta la parete del Sacrario, con quattro enormi personaggi. Sono gli evangelisti, rappresentati come antichi eroi, con i loro simboli tradizionali e con iscrizioni che rimandano a temi e valori del regime fascista. Marco, con il leone, rappresenta la forza, Giovanni con l’aquila l’intelligenza, il pensiero, Luca con l’angelo la fede, Matteo infine con il simbolo del bue rappresenta il lavoro. Forza, pensiero, fede, lavoro sono le virtù che caratterizzano, secondo i dettami di Mussolini, le Camicie Nere. La sala, con la sua decorazione originaria rimessa a nuovo, è oggi l’aula magna del Comando Territoriale di Roma dell’Esercito Italiano.
L’architetto Vittorio Cafiero è anche il progettista del Ministero delle Colonie, oggi Palazzo della FAO, e dell’imponente caserma dietro piazza Mazzini oggi sede della Corte dei Conti. Dopo la guerra, Cafiero sarà uno dei progettisti del Villaggio Olimpico. Pietro Lombardi è meno giovane del collega. Aveva lavorato negli studi di Brasini e Piacentini ed è stato molto attivo in ambito coloniale (a Rodi, per esempio). Nel dopoguerra a Roma lavorerà nell’edilizia residenziale privata. E’ sua la palazzina Giammarusti, all’angolo tra viale Buozzi e via Gramsci, caratterizzata dalla facciata curvilinea, un elegante ingresso e dalla piscina di un noto cantante all’attico. Ma Lombardi non fa l’architetto a tempo pieno, è professore all’Accademia di Belle Arti di Ripetta e si guadagnerà la fama nella nostra città con altri lavori: è suo il progetto della fontana delle Anfore a Testaccio e successivamente è a lui che il Comune affida la progettazione di tutte la particolarissime fontane dei rioni: le Tiare a Borgo, per esempio, e la fontana degli Artisti, piena di cavalletti, colori, tavolozze: è infatti la fontanella di Campo Marzio, che per secoli è stato il loro rione.
Parte 3
Dall’altra parte della strada c’è l’ingresso di una delle sedi romane della LUISS Libera Università degli Studi Sociali Guido Carli, un grande complesso universitario con un parco che si estende in profondità fino a via Panama e in larghezza da via del Canneto al complesso di San Bellarmino. Ma la storia di questi luoghi è molto più antica. I primi documenti sulla sistemazione dell’area risalgono al Seicento quando davanti a noi, tra il vicolo di San Filippo e via Salaria, si estendeva una grande proprietà della famiglia Altieri. A inizio Ottocento, al posto di vigna Altieri troviamo:
- Villa Digne, con il suo casino nobile sul vicolo di San Filippo che vediamo qui davanti, dove ora c’è l’edificio direzionale della LUISS,
- la vigna del Napoletano, dove ora è la chiesa di San Bellarmino,
- la vigna del Facocchio, approssimativamente dove oggi corre via Lima,
- la vigna Simonetti (sulla via Salaria dove a fine Ottocento sorgerà villa Grazioli) e
- Villa Lecce, che si estendeva da via Salaria tra le attuali via Bruxelles e Villa Ada. Il casino nobile di Villa Lecce è ancora lì sulla via Salaria, tra via Panama e via Bruxelles. Anche se completamente rifatto a inizio Novecento, è facile riconoscerlo, per via del grande portale settecentesco che, oggi incomprensibile, è ancora lì, a fianco dell’edificio.
A fine Ottocento, Giovanni Campbell Smith, conte De Heritz, acquista Villa Lecce e Villa Digne e sistema il casino nobile di quest’ultima: facendo nascere così la grande Villa Heritz, dalla Salaria a qui.. Il conte De Heritz era Cameriere Segreto di Cappa e Spada nella corte pontificia, incaricato del servizio personale a papa Benedetto XV. La carica, appannaggio delle famiglie nobili romane e non solo romane, è stata abolita solo nel 1968 da papa Paolo VI. Dopo la morte del conte, nel 1919, gli eredi vendono la proprietà alla Società Generale Immobiliare che stipula con il Comune, nel 1928, una convenzione per la costruzione di un grande quartiere residenziale di pregio. Ma per fortuna, la fascia di terreno tra via Panama e Villa Savoia non può essere costruita, per ovvi motivi di sicurezza della famiglia reale, e nemmeno la parte della villa su viale Romania può essere costruita, per ùuna clausola introdotta dal conte De Heritz nel suo testamento sull’obbligo di destinazione d’uso a scuola dell’antica Villa Digne. Risultato di tali vincoli è stato che sull’area di Villa Heritz nasceranno solo le palazzine tra via Panama e via Bruxelles.
Nel 1929, il vecchio casino nobile di Villa Heritz, sul vicolo di San Filippo è demolito e ricostruito. Il progettista è Giovanni Battista Milani che, nell’adozione del nicchione centrale, cita il distrutto casino della villa Sacchetti al Pigneto (la zona che oggi chiamiamo Pineta Sacchetti), opera seicentesca di Pietro da Cortona. Nel nuovo casino di villa Heritz va ad abitare Bruno Mussolini, aviatore pluridecorato, terzogenito del Duce. All’interno dell’abitazione, al piano terreno, Bruno fa realizzare dei cippi marmorei con scolpiti i nomi degli aviatori italiani suoi compagni nelle trasvolate intercontinentali. Dopo la morte prematura, avvenuta nel 1941 per un incidente in fase di atterraggio del suo bombardiere, la villa è trasformata in una specie di sacrario e nel 1943, sotto il giardino davanti all’ingresso del casino, è realizzato un rifugio antiaereo.
Nel secondo dopoguerra, si trasferisce qui, dalla sede di corso d’Italia angolo via Pinciana, l’Istituto religioso femminile fondato in Francia a metà Ottocento da Maria Eugenia di Gesù. Sono le Dame dell’Assunzione (come si fanno chiamare le consorelle) che costruiscono la chiesa dedicata a Maria Assunta (oggi trasformata nell’aula magna dell’ateneo), il loro convento (intorno a un grande chiostro a destra della chiesa) e il grande complesso scolastico che vediamo ancora oggi sulla destra, verso san Bellarmino.
Erano tempi in cui la scuola cattolica teneva particolarmente a cuore la formazione dei giovani della alta borghesia, sia dei ragazzi, destinati a diventare i dirigenti della nazione, che delle ragazze, che dovranno occuparsi della famiglia e dell’educazione dei figli. Sono le suore dell’Assunzione che, una volta acquistata la villa, eliminano tutte le aggiunte del periodo fascista: Fanno interrare l’ingresso del rifugio antiaereo e fanno seppellire nel parco, senza rivelare a nessuno il luogo esatto, un motore e un pezzo dell’ala dell’aereo in cui era morto Bruno Mussolini, ingombranti cimeli portati a Roma dai suoi camerati.
Nel 2000, il complesso è venduto alla Libera Università degli Studi Sociali, la LUISS, che ristruttura e amplia gli edifici, sia quelli delle aule che quelli dedicati ai servizi universitari, trasformando la villa in un moderno ateneo analogo alle prestigiose università anglosassoni e americane.
Lasciamo la LUISS e incamminiamoci su viale Romania verso l’incrocio con via Locchi. Andiamo così a “esplorare” una particolare area del quartiere, che ci piace chiamare Borghetto Parioli.
Per arrivarci, continuiamo a percorrere il viale verso piazza Ungheria lasciando alla nostra destra il bel palazzo all’angolo con via Slataper. I pini in mezzo al viale ci ricordano che il vicolo di San Filippo era largo circa la metà dell’attuale corsia destra e che la corsia sinistra, creata a spese dei proprietari confinanti, era dedicata al passaggio dei tram.
Poco più avanti sulla destra, vediamo un edificio decisamente più vecchio di quelli che siamo abituati a vedere da queste parti. La cosa ci sorprende e ci spinge a pensare. Il nome Parioli, lo sappiamo, evoca numerosi e spesso scontati luoghi comuni: ricchi signori, bionde consorti, ristoranti chic; esattamente come nei film di Carlo Vanzina. Ma qui non è così!
Al civico 35 c’è un ferramenta. Lì accanto, c’è Il Grottino del Laziale, una vecchia trattoria che fa della cucina romana il suo cavallo di battaglia. Se c’entrate, scendendo tre gradini, sembra di stare a Trastevere. Affacciandoci su via Locchi poi, qualche metro più avanti, vediamo un negozio di casalinghi, un alimentari “vecchio stile”, il pescivendolo, una merceria, e perfino le pompe funebri. Siamo in uno luogo insomma, in cui si sono concentrati i servizi più umili di questo esclusivo quartiere.
Questa specie di Borghetto dei Parioli ha radici antiche. Qui sul vecchio vicolo di San Filippo, alcuni edifici isolati nella campagna ci sono da sempre stati. Sono tracciati anche sulla mappa di fine Ottocento su cui il piano regolatore del 1909 è stato successivamente disegnato. Uno di questi edifici in particolare, era una stazione di posta per cambiare o far riposare i cavalli: Roma infatti era ancora lontana.
A partire dagli anni Venti, Roma si allarga fuori le mura in tutte le direzioni. Anche da queste parti, antiche ville e vigne sono lottizzate e sorgono numerosi cantieri edilizi. E arrivano centinaia di muratori, artigiani, operai che ovviamente hanno bisogno di mangiare e di bere. Bulzoni, oggi prestigiosa enoteca a viale dei Parioli, apre qui una piccola bottega che vende il vino dei Castelli agli operai, che siedono ai suoi tavoli per mangiare il cibo portato da casa.
Con gli anni, il quartiere intorno alla nuova piazza Ungheria, seppur ancora lontano dalla città, incomincia a riempirsi di abitanti. E le esigenze crescono. Ma le prime costruzioni parioline sono villini e pochissimi degli altri edifici prevedono negozi sulla strada. Lungo viale dei Parioli, per esempio, non è previsto nemmeno un negozio, e in realtà fino al secondo dopoguerra ce ne saranno pochissimi. Tutto il commercio di questa zona si sviluppa su bancarelle e carretti dove comprare di tutto, anche il ghiaccio da mettere della ghiacciaia.
Prima della guerra, il mercato rionale era su piazza Ungheria, iniziava dal marciapiede di viale Liegi e proseguiva su viale Rossini. I banchi erano strutture mobili e, a fine giornata, venivano smontati e trasportati con carretti e in un deposito che … dove pensate che stesse? Stava qui, nel nostro Borghetto, in una casupola appoggiata al montarozzo che era dove oggi sorge il complesso di San Bellarmino.
Ma i banchi del mercato, in cui si vendono alimentari e poco più, non bastano. Servono anche gli accessori per la casa, la cartoleria per i bambini che vanno a scuola, l’idraulico per il rubinetto che perde, la tintoria. E piano piano diverse botteghe aprono nei locali su strada di questi edifici, caratterizzati da canoni di affitto contenuti. E le nuove palazzine che sorgono negli anni Trenta a via Locchi, di cui alcune realizzate dall’INCIS, non cambiano le caratteristiche di questa piccola area.
E la sua missione commerciale si rafforza quando il Comune decide, sul finire della guerra, di spostare, qui a via Locchi, il mercato rionale. “Provvisoriamente” dissero allora, ma per più di cinquant’anni nessuno ha avuto il coraggio di spostarlo. Solo nel 2007 le pressioni del costruttore del nuovo grande residence realizzato al posto dell’Istituto San Gabriele rendono possibile il trasferimento del mercato. Ma l’apertura del grande supermercato sotto la vecchia scuola … (via Vittorio Locchi) e di un discount market nel piccolo edificio all’angolo davanti a noi hanno permesso a questo strano Borghetto dei Parioli di rimanere pieno di vita e commerci.
Tale “specializzazione” dell’area è testimoniata anche dalla presenza delle numerose bancarelle che occupano il marciapiede di viale dei Parioli e che nessuna protesta, da parte dei cittadini, è riuscita a far sloggiare.
Dopo via Locchi, a destra vediamo un edificio rimesso a nuovo. Era il casino di una vecchia proprietà, Vigna Masucci, che si affacciava sul vicolo di San Filippo. Con l’urbanizzazione della zona, il vecchio casale è ampliato e diventa un convento, le suore affittano i locali sulla strada e diverse botteghe si aggiungono così al nostro borghetto. Qui c’era la gioielleria, il parrucchiere, il bar di Demetrio, un vecchio negozio di giocattoli conosciuto da tutti i bambini di queste parti. Tutti sfrattati, quando una società dell’Opus Dei acquista l’edificio, che oggi, completamente rimesso a nuovo, ospita una serie di attività legate al mondo universitario femminile. Nel borghetto Parioli, infine, non poteva mancare il meccanico. Eccola! verso piazza Ungheria, l’autofficina di Massimo, un personaggio ormai storico in questo quartiere.
Siamo arrivati alla fine della nostra passeggiata, ma dobbiamo ancora parlare di qualcosa che è stata sotto i nostri piedi per tutto il percorso, da quando siamo partiti a via Mafalda di Savoia fino a qui: l’acquedotto dell’Acqua Vergine.
Siamo sullo spartitraffico dove c’è un grande tombino rettangolare, riconoscibile perché presenta un marchio improbabile da queste parti: quello delle Ferrovie dello Stato. E’ la traccia di un episodio avvenuto esattamente in questo punto. (viale Romania all’altezza di via Locchi) Qualche anno fa, un maestoso pino che era in mezzo al viale, crollò di schianto. Per fortuna era notte e non ci furono vittime. I primi curiosi, che si affacciarono … nel grande buco, creato dalle le radici ormai all’aria, intravidero un muro in opus reticolatum, orientato più o meno nella stessa direzione della strada soprastante.
Era (anzi è, visto che sta ancora qui sotto) il condotto dell’Acqua Vergine, l’unico acquedotto romano con un percorso sotterraneo, voluto dal grande generale, amico e genero di Augusto, Marco Vipsanio Agrippa (il cui nome è inciso a caratteri cubitali sul fronte del Pantheon). L’acquedotto è lungo venti chilometri, con un dislivello di soli 6 metri tra sorgente e punto di arrivo: ciò significa che il condotto sotterraneo in cui scorre l’acqua ha una pendenza costante di soli 30 cm per chilometro. L‘Acqua Vergine sgorga a pochi chilometri da Roma, fuori il Raccordo Anulare tra la Tiburtina e la Prenestina. Una volta arrivato nelle vicinanze di Roma, il condotto devia verso nord. Supera su arcate la valle dell’Aniene a Pietralata e riprende il suo percorso sotterraneo verso ovest. Passa sotto il quartiere Africano, sotto le catacombe di Priscilla, Villa Ada, per poi deviare ancora verso sud e proseguire sotto via di san Filippo Martire e viale Romania fino a dove siamo noi ora.
Da qui devia a destra, supera, sottoterra naturalmente, viale dei Parioli, via Bertoloni e viale Bruno Buozzi e arriva sotto a Valle Giulia, dove il condotto è visibile sotto il Ninfeo della villa di papa Giulio! L’Acqua Vergine prosegue sotto Villa Borghese e parallela a via Flaminia, con il pozzo d’ispezione su viale del Muro Torto per poi alimentare le fontane di piazza del Popolo. Arriva infine a Campo Marzio, dove le sue diramazioni danno il nome a via Condotti, o meglio via dei Condotti … e dove è finalmente possibile vedere l’acquedotto sia all’aperto in via del Nazareno che al chiuso, nella Rinascente in via del Tritone.
Sono alimentate dall’Acqua Vergine tutte le fontane romane da Villa Giulia al centro di Roma. Tra di esse la fontana di Palazzo Borromeo in via Flaminia, la Barcaccia a piazza di Spagna, la splendida Fontana di Trevi e, infine, la Fontana dei Fiumi a piazza Navona.
La nostra passeggiata è terminata. Arrivederci alla prossima, e non dimenticate di seguirci su www.roma2pass.it e su www.associazioneamuse.it. Grazie per l’attenzione e arrivederci.
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Testo
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