Luccichenti e gli anni del boom

Un articolo di Maria Laura Rodotà, pubblicato il 11 gennaio 1997 sul Corriere della Sera, sui fratelli Ugo Luccichenti e Amedeo Luccichenti protagonisti, nel dopoguerra, dell’espansione cementizia nei quartieri Parioli, Nomentano e Monte Mario.

«L’architetto Luccichenti
gli italiani fa contenti
con le scatole che ha rotte
costruisce e se ne fotte».

Quando ero piccola e risiedevo in zona piazza Bologna, ripetevo entusiasta questa filastrocca sentita in casa. Da grande, ho scoperto che era di Mino Maccari, disegnatore-pittore-battutista della Roma di metà Novecento. Da parecchio più grande, pedalando, ho scoperto che Maccari aveva ragione.

L’architetto Luccichenti fu uno dei protagonisti dell’espansione cementizia del secondo dopoguerra. O meglio: la questione è più complicata. I Luccichenti erano due, Ugo e Amedeo, attivi dalla fine del fascismo a tutti gli anni del boom. Il Luccichenti della filastrocca dovrebbe essere Ugo, più amico di Maccari (gli dedicava vignette), ma Ugo era ingegnere. Ambedue i Luccichenti hanno costruito palazzoni e palazzine nella dorsale romana più o meno borghese che va dal Nomentano a Monte Mario passando per i Parioli. Che per molti di noi è una colata irredimibile e pure un pezzo di cuore; che per gli esperti è rivalutabile ma anche no.

Meglio cominciare con una colazione da Romoli, comunque.In viale Eritrea, bar classicone, diurno e notturno, che fa entrare in atmosfera da anni del boom. Da lì si imbocca viale Libia, e si ammirano con qualche perplessità gli edifici intensivi dal 6 al 14, dei primi anni Cinquanta. Poi si torna indietro, si pedala per corso Trieste, si sale a destra per via Chiana, si sconfina nei Parioli, in via Panama. Si prende a sinistra via Polonia, via Bruxelles, via Fratelli Ruspoli. Al 10 c’è la Nave, del 1949; è sempre una palazzina ma la chiamano così per la curva dei balconi. Si sbuca in via Lima, al 4 c’è un palazzo del 1937, forse il più bello del Luccichenti Ugo, ancora déco.

Da via Lisbona e via Panama si arriva in piazza Ungheria – viale Romania – via Tommaso Salvini; fino a piazzale delle Muse. Si ripensa ai pini abbattuti per fare un bel parcheggio, ci si gira a guardare lo stabile 6-7, del 1940, ci si rende conto che è l’archetipo del palazzo signorile sognato da generazioni di signore mie, e dai loro mariti. Si fugge per via Alberto Caroncini e via Umberto Boccioni, si sbuca in viale dei Parioli, si va sul marciapiede a piazza Euclide, si sale per via Archimede, strada-traguardo delle Finte Bionde dei Vanzina, si ammira il civico 185 e poi si scende per via di San Valentino. Al 16 c’è una palazzina del fratello Amedeo, fin qui sacrificato.

Poi si può omaggiare Amedeo (era nel team di architetti) pedalando per il Villaggio Olimpico. Oppure scendere su viale Maresciallo Pilsudski, traversare via Flaminia, raggiungere viale Pinturicchio 93, preoccupante palazzone di Ugo. Da lì, essendo sportive/i, via Ponte della Musica, si può arrivare a piazzale Clodio, salire verso Monte Mario, prendere a sinistra in via Cadlolo, dove c’è l’Hilton, del 1963, co-progettato da Luccichenti e speculazione-sfregio storica. Fu costruito su un’area che doveva essere verde pubblico, si vede da ovunque, ed è «nella realtà ancora peggiore di quanto si poteva prevedere» (così scrisse Italo Insolera; così va, a Roma, alle volte).

Maria Laura Rodotà

Fonte del testo Corriere della Sera del 26 gennaio 2013

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