Passeggiando per il quartiere Coppedè, di fronte al liceo Avogadro, al civico 7A di via Olona una targa in ottone con un albero attira la mia attenzione. E’ il “Civico Giusto”, un’opera frutto dell’arte e della manualità di Dante Mortet, erede di un antico “sapere artigiano” che la sua famiglia fa vivere da più di un secolo nella bottega di via dei Portoghesi 18.
Il “Civico Giusto” “segna” un luogo e ricorda persone che qui non si sono voltate indietro davanti ai perseguitati dei nazisti. È una iniziativa dell’associazione Roma BPA (Best Practices Award), una organizzazione che lavora su una rete di notizie ricavate dal Museo della Liberazione, dall’Archivio di Stato, da scuole e dalla memoria dei testimoni. Le formelle sono state create dall’artista romano Dante Mortet.
In questa elegante palazzina, la famiglia Supino (Paolo ed Emma con i tre figli Giulio, Laura e Silvia), di origini ebraiche, venne nascosta tra l’ottobre e il novembre del 1943 dai coniugi Serafino e Amalia Trella nel loro appartamento.
Il 16 ottobre si era consumato uno degli episodi più tragici della storia di Roma, il rastrellamento degli ebrei del Ghetto da parte dei tedeschi.
In via Olona 3 viveva la famiglia Supino e al civico 7 la famiglia Trella, tutte e due con tre figli. Saputo della retata al Ghetto, il Generale Paolo Supino, che era stato destituito dall’esercito italiano dopo l’entrata in vigore delle leggi razziali del 1938, si trasferisce immediatamente a casa della suocera, poiché era noto che i tedeschi sapevano benissimo quali erano le case degli ebrei.
Prima di andare via, Paolo confida al portiere del palazzo il luogo dove andranno, sapendo che non potranno fermarsi molto lì, poiché la signora era una nota antifascista. Il portiere comunica ai coniugi Trella l’informazione e i Trella fanno sapere la loro disponibilità ad ospitare i tre bambini; la permanenza durerà dal 18 ottobre al 22 novembre 1943.
Attraverso amicizie, in seguito si trovarono dei posti per i bambini, le ragazze in un collegio di suore a piazza Pitagora ed il ragazzo presso dei frati, dove rimarranno fino al giugno del 44, quando Roma venne liberata dagli Americani e la famiglia Supino poté fare ritorno a via Olona 3. Ma non subito perché la casa era stata occupata dagli sfollati, che avevano dovuto lasciare le loro case a causa dei bombardamenti. A loro erano state assegnate le case lasciate vuote da chi era fuggito perché ebreo o antifascista.
Tornati finalmente a via Olona trovarono al casa vuotata dai mobili, bruciati durante l’inverno per combattere il freddo.
È Gabriele Scifoni, nipote dei coniugi Trella, che intervistato racconta: “Mamma racconta sempre che una volta i tedeschi arrivarono al Coppedè per cercare un giovane, scappato dopo una rapina. Bussavano casa per casa. In quei giorni i Supino erano già loro ospiti, così nonna andò ad aprire la porta e teneva per mano stretta mia madre come per intimarle di non parlare, di non tradirsi svelando la presenza di altre persone. Per fortuna quel soldato era giovane e inesperto, non mise piede in casa e andò via“.
Gabriele racconta anche un altro particolare: “Sia i miei nonni sia i Supino avevano tre figli, quindi la raccomandazione ai bambini era di uscire sempre e solo in tre, anche se mischiati, per non dare modo a nessuno di pensare che ci fosse qualcuno in casa. Per fortuna, poi, il portiere della scala in cui vivevano i Supino non era un delatore, cosa molto frequente in quegli anni. Anzi, era una bravissima persona”.
Dieci anni fa Serafino e Amalia Trella sono stati riconosciuti “Giusti tra le Nazioni” dalla commissione speciale istituita dallo Stato d’Israele per rendere onore a quelli che, durante l’Olocausto, hanno soccorso e nascosto ebrei perseguitati salvandogli la vita. E in molti casi sono nate amicizie, relazioni forti che hanno superato le difficoltà, a partire dalla fame, dal pericolo di un arresto e conseguente deportazione.
Chiunque oggi passi per via Olona, arrivato al civico 7A potrà conoscere questa storia semplicemente inquadrando il QR-code affisso accanto al numero.