Uscendo da Porta Pia e andando a destra per viale del Policlinico, a sinistra tra i palazzi del Ministero delle Infrastrutture e delle Ferrovie dello Stato Italiane, vediamo una stradina interna che poi piega a sinistra e arriva alla Nomentana.
Il nome di questa piccola via non figura nello stradario del Comune; nei documenti ferroviari è chiamata “via De Meus”, ma nessuno sa spiegare perché (forse, noi ci riusciremo). Più avanti c’è piazza della Croce Rossa, con l’ingresso principale delle stesse Ferrovie; quindi una via che va fino a piazza Galeno, intitolata alla “villa Patrizi”, dimora settecentesca che, col suo ampio parco, ha occupato questi luoghi fino all’inizio del Novecento (via di villa Patrizi).
Se invece da Porta Pia andiamo dritti sul marciapiede destro di via Nomentana, superiamo il Ministero delle Infrastrutture, un tempo chiamato “dei Lavori Pubblici” (come tuttora scritto sopra il suo ingresso, insieme all’anno dell’inaugurazione, il 1925); oltrepassiamo, al n. 4, l’uscita della stessa via De Meus; appresso, al civico 6, c’è un supermercato moderno (al cui interno però ci sono i resti di una delle tante splendide ville che gli antichi romani costruirono in zona, quella di Antonia Caenis, compagna dell’Imperatore Vespasiano).
Al civico n.8, sorge il Monastero delle Religiose dell’Eucarestia con la Chiesa del Corpus Domini, oggi “dipendenza” della parrocchia di S. Giuseppe (che sta più avanti al n. 60, ma di questa chiesa ne parleremo dopo). Giriamo a destra per via dei Villini, così chiamata perché qui dalla fine dell’Ottocento ne sono sorti parecchi, che scende, come via di villa Patrizi, a piazza Galeno, delimitando così, più o meno, la zona di cui vogliamo occuparci.
Ci fermiamo in fondo a via dei Villini, davanti alla palazzina con ingresso dal civico 34, che ospita il Monastero delle Suore Figlie del Cuore di Gesù. Prima di tale ingresso c’è il nostro punto di partenza: un vecchio portoncino di ferro [vedi figura]. Sul muro a sinistra, si intravedono delle parole dipinte oggi sbiadite da ottant’anni di intemperie; la scritta recitava “RICOVERO ANTIAEREO PUBBLICO CAPIENZA POSTI 200”; quella che però ci interessa è la scritta scolpita sopra la porta “C.D.A.S. S. NICOMEDE” Cosa vuole dire?
“C.D.A.S.” è una abbreviazione della “Pontificia Commissione Di Archeologia Sacra”, istituita da Pio IX nel 1852 per la tutela – scrisse il Papa – dei “sacri cemeteri antichi”; la Commissione è tuttora attiva, in quanto – in base al Concordato del 1929, rinnovato nel 1984 – la Santa Sede è rimasta competente in materia di studio e tutela delle catacombe cristiane in Italia. Per questa porta si dovrebbe quindi accedere a uno di tali cimiteri; anche se, dall’erba che c’è davanti, è evidente che non viene aperta da parecchio tempo [vedi figura]. Aggiungo che anche il materiale che protegge la porta, una lastra di metallo, ci avrebbe dovuto far capire subito che si tratta di una catacomba.
Quanto a “S. NICOMEDE”, chi era costui? Visto che gli hanno intestato una catacomba, Nicomede è certamente una vittima delle prime persecuzioni ai seguaci di Gesù; ma per trovare qualche notizia in più dobbiamo arrivare al V secolo, in una Roma ormai cristianizzata, quando la vicenda di tale Martire venne raccontata nella “Passio Sanctorum Nerei et Achillei”, un testo sacro sulle vicende di vari Santi, che fonde la tradizione di questi due personaggi (Nereo e Achilleo) con quella, che qui interessa, di Nicomede e Petronilla.
Nel testo citato leggiamo che nell’anno 85 d.C. – durante le persecuzioni dell’Imperatore Domiziano – il presbitero cristiano Nicomede assiste spiritualmente Petronilla – bellissima figlia nientemeno che di San Pietro – la quale, prima paralitica poi miracolosamente guarita (ovviamente dal babbo), riceve la visita di un ricco pagano, Flacco, che “cum militibus armatis” le ordina (talebano ante litteram) di sposarla. Lei, se da una parte è vergine e votata al Signore, dall’altra non può negarsi al potente pagano, e implorandolo, riesce a ottenere solo un rinvio delle nozze di tre giorni. Quindi, desiderando sottrarsi in qualunque modo all’uomo che la vuole, si ritira a pregare insieme con l’amica (altrettanto devota) Felicola, con l’assistenza appunto del nostro Nicomede. Alla fine del terzo giorno le sue preghiere sono esaudite ed ella serenamente … muore.
Poco dopo, arriva Flacco seguito, come usava all’epoca, da un “corteo nuziale di matrone e vergini” che avrebbero dovuto accompagnare la sposa a casa dello sposo; e, saputo l’accaduto, non la prende affatto bene! Però, vista Felicola (anch’essa “di forme leggiadre”) e dato che la cerimonia nuziale è comunque già pronta, decide, detto fatto, di sposare lei. Felicola, anch’essa votata alla preghiera e alla verginità, rifiuta; allora il Flacco – che evidentemente andava assai per le spicce – la fa uccidere e gettare in una cloaca.
Qualche giorno dopo, Nicomede ne recupera le spoglie e la seppellisce; ma il sempre più incattivito Flacco, venutolo a sapere, convoca il presbitero e gli intima di rendere sacrifici agli dei; lui rifiuta sdegnato. A questo punto, secondo un altro documento del VII secolo, è condannato alla graticola; ma un temporale spegne il fuoco e un successivo terremoto disperde i pagani che assistano al martirio, uccidendone un centinaio. Il giorno dopo riprovano a buttarlo fra le fiamme, che stavolta si spengono da sole. Infine, entrambi i racconti concordano che gli uomini di Flacco cambiano sistema e il presbitero “fu battuto lunghissimamente con flagelli piombati, e in quel tormento passò al Signore”; dopodiché, per impedire che qualcuno provi a recuperarne il corpo, lo buttano nel Tevere.
Un altro cristiano, evidentemente barcarolo, chiamato Giusto (“nomine et opere”, cioè di nome e di fatto), riesce a ripescare dal fiume il corpo di Nicomede e lo porta “ad horticellum sum, iuxta muros via Nomentana” (cioè nella nostra zona, fra la strada e le mura Aureliane) e lì lo seppellisce. Era, secondo la tradizione prevalente, il 15 di settembre e questo giorno fu, nel calendario, intitolato a tale Santo.
Una bella leggenda, evidentemente quasi tutta inventata! Ad esempio – a parte l’improbabile figlia di San Pietro – lo stesso nome di Giusto certo calza a pennello sul personaggio, ma in realtà l’orticello in cui Nicomede fu sepolto doveva essere nella grande proprietà della “gens Catia”, dato che fra le iscrizioni ritrovate in loco ricorre spesso la scritta “Catianilla”; inoltre, all’epoca di Domiziano le mura Aureliane ancora non c’erano! Ciò nonostante il seppellimento in questo luogo sulla Nomentana è l’unica parte attendibile del racconto; per il resto, è molto probabile che nel V secolo si fosse perso il ricordo della vicenda originaria e occorresse dare fondamento e spiegazione al culto di un Santo comunque allora talmente venerato che attorno al suo sepolcro si era sviluppato un ampio cimitero. Ma andiamo con ordine.
Il sottosuolo della zona era al contempo tufaceo e ricco d’acqua, per cui era relativamente facile scavare delle gallerie che però andavano adeguatamente drenate per evitare che si allagassero. I romani queste cose sapevano farle benissimo, tant’è che proprio qui sono state aperte delle cave di tufo sin dal lontano VI secolo a.C., all’epoca dei Re Tarquinio Prisco e Servio Tullio. È possibile che tali cave siano state utilizzate per la costruzione delle prime mura Serviane (Porta Collina è qui vicino); ma di sicuro vennero presto abbandonate e dimenticate. D’altra parte, nel 450 a.C. le “Leggi delle XII tavole” stabiliscono che nessuno potesse essere inumato o cremato all’interno del “pomerium” (termine probabilmente derivante da “post moerium”, di là delle mura); tale pomerio, confine di Roma sia amministrativo che sacro, coincise inizialmente con le predette mura Serviane, per poi gradualmente allargarsi fino alle più tarde Aureliane. Per questo motivo, nel sito in questione ci sono sempre state tombe, pagane e cristiane.
Anche da quanto detto, deriva l’usanza dei primi cristiani di seppellire i defunti scavando loculi in gallerie sotterranee, dette in latino “catacumbae” (forse dal greco “katà kumbas”, cioè “presso le grotte”); così intorno al III secolo d.C. qui, intorno al sepolcro di Nicomede a una dozzina di metri sotto le vecchie cave di tufo, si sviluppano le grandi catacombe a tale Santo intitolate. Queste catacombe rimangono in uso, o comunque oggetto di culto, fino al V/VI secolo; poi, vuoi per gli allagamenti dovuti alla scarsa manutenzione, vuoi per le continue incursioni dei Longobardi che rendevano pericoloso l’avventurarsi in questi luoghi, sono gradualmente abbandonate.
Nel VI secolo Papa Bonifacio V fa costruire, accanto alle catacombe di Nicomede, una Basilica dedicata al Santo, ove le sue spoglie sono poi trasferite. La Chiesa è restaurata sotto papa Adriano I alla fine del VII secolo; ma nell’VIII il Pontefice Pasquale I, per motivi di sicurezza, fa portare dentro le mura le reliquie del Santo. Così, dopo sette secoli, le sorti del Martire si separano da quelle dei suoi primi luoghi di culto. Ma, niente paura, riusciremo di ricostruirle entrambe.
Cominciamo da tali luoghi. Sia della chiesa che del sottostante cimitero non si hanno più notizie per secoli; solo a partire dal Quattrocento nella zona si ricomincia a scavare di nuovo nelle antiche cave tufacee, circa 6/7 metri sopra le nostre catacombe, per ricavare materiale di costruzione – stavolta pozzolana. Le nuove cave, pur realizzate con minore perizia di quelle romane, sono utilizzate più a lungo, scendendo man mano di livello fino a imbattersi nel cimitero sottostante. Forse sono proprio gli scavatori ad avvisare, fra fine Cinquecento e inizio Seicento, uno delle pochissime persone allora interessate a esplorare questi “buchi” sottoterra: Antonio Bosio.
Nato a Malta e trasferitosi da giovane a Roma al seguito dello zio, uno stimato storico, Antonio è un ragazzo scapestrato che, nelle sue scorribande notturne, si diverte con gli amici a infilarsi dappertutto, anche in grotte sotterranee; poi, anche per non essere diseredato, mette la testa a posto, si dedica agli studi e – fino alla morte, nel 1629 – svolge le prime serie ricerche nel sottosuolo dell’Urbe. Scopre una trentina di catacombe ed è soprannominato “il Cristoforo Colombo della Roma sotterranea. Così il 14 dicembre 1601, “uscendo fuori dalla Porta Pia, e caminando per la via Nomentana alcuni passi a mano dritta … in una vigna”, il Bosio, come scrisse nella sua opera “Roma sotterranea”, ritrova un “piccuolo Cimiterio sotterraneo, al quale si discende per alcuni scalini di mattoni … il quale ha li suoi monumenti cavati nel tufo … Il detto cimiterio è piccolissimo, havendo quattro o cinque strade, con tre o quattro cubicoli solamente, ed io penso che questo sia di S. Nicomede”; ciò in quanto, nella stessa vigna, ha ritrovato anche “alcune vestigi di muri, che forsi sono della Chiesa dell’istesso Santo”. Erano proprio le nostre catacombe? Chissà. Di sicuro in breve tempo, di questa scoperta del Bosio si perde completamente l’esatta ubicazione (al novello Colombo è intitolata via Antonio Bosio, sempre nel quartiere Nomentano ma dall’altra parte di Villa Torlonia).
In questa area sorge, fra il 1716 e il 1725, la grande villa della famiglia Patrizi, con un ampio parco, via via allargato con successive acquisizioni. Un po’ oltre, ancora sulla Nomentana, nel 1741 è costruita una bella chiesetta, dedicata a Santa Maria della Natività; tra l’altro, nel suo altare sono collocate le reliquie di tre Santi: Modesto, Pio e … Giusto (chissà se era l’amico di Nicomede).
Arriviamo così al 1864, quando a scavare nel parco di villa Patrizi è Giovanni Battista De Rossi – fondatore dell’archeologia cristiana come moderna disciplina scientifica, nonché grande studioso del cristianesimo dei primi anni – che qui scopre le vestigia di un edificio rettangolare absidato, di fronte al quale una scalinata scende ad alcune gallerie sotterranee [vedi figura] con cubicoli e iscrizioni greche e latine, fra cui un graffito con le lettere “NIKO” (che fanno pensare a Nicomede); forse il luogo è lo stesso del Bosio, comunque De Rossi conclude che tale edificio corrisponde all’antica basilica del Santo e che gli ambienti sotto di esso sono le relative catacombe (anche al De Rossi è dedicata, nel Nomentano, una via, che incrocia quella di Antonio Bosio).
Con lo sviluppo di Roma capitale d’Italia, e in particolare a seguito del Piano Regolatore del 1883, il grande parco di villa Patrizi è gradualmente lottizzato, venduto ed edificato. Si realizzano nuove strade, che per lo più si diramano dalla Nomentana che si decide di allargare in modo significativo; nel 1890 iniziano i lavori che portano la larghezza dai 10 metri di allora ai 40 della sezione attuale [vedi figura].
Per le esigenze degli abitanti del nuovo quartiere occorrono anche edifici religiosi. Una chiesa come sappiamo c’è già, quella dedicata alla Natività di Maria. I Patrizi l’hanno acquistata nel 1869; facendo però un pessimo affare, perché il bel fabbricato incappa nell’allargamento della strada e, dopo alterne vicende, è demolito nel 1902; sul terreno retrostante è costruita, allineata al nuovo limite della via, l’attuale Chiesa, progettata dall’architetto Carlo Busiri Vici (lui la strada non ce l’ha; ce n’è invece, vicino a villa Pamphili, una dedicata a suo padre Andrea, anch’esso architetto). In stile neoromanico, con all’interno evidenti richiami all’arte bizantina, è inaugurata nel 1905 e intitolata a San Giuseppe [vedi figura]; nell’altare della sagrestia sono trasferite le reliquie di Giusto (sempre insieme – in un compendio di virtù – con Modesto e Pio). Per la cronaca, accanto a tale chiesa c’è un altro edificio, costruito ancora dal Busiri Vici nel 1905, che pare fosse un tempo chiamato, come la stradina sopra citata, fabbricato “De Meus”; ma, di nuovo, non si sa perché.
Tornando verso Porta Pia, allora nasce fra le altre strade anche via dei Villini, e il terreno sovrastante le gallerie scoperte dal De Rossi passa, come detto, alle Figlie del Cuore di Gesù, che vi fanno edificare – sempre da Carlo Busiri Vici – il loro monastero, in stile neoromanico. C’erano ancora – in quello che divenne il giardino del convento – tracce dell’edifico romano considerato dallo stesso De Rossi la basilica di Nicomede; così le pie monache vi piantano dei cipressi, disposti in modo tale che dell’antico fabbricato fosse riprodotta la planimetria.
Avvicinandosi ancor di più a Porta Pia, un altro lotto sulla Nomentana è venduto alle Suore belghe dell’Adorazione Perpetua (oggi chiamate, come detto, Religiose dell’Eucarestia); lì fra il 1886 e il 1889 è costruita l’attuale, sopracitata Chiesa del Corpus Domini, in stile neogotico, col relativo monastero. Il progetto, definito dall’onnipresente Busiri Vici, è modificato e attuato prima dal francese Victor Gay, poi dal belga Arthur T. Verhaegen (a Bruxelles c’è una rue Théodore Verhaegen, chissà se è lui). Anche durante tale costruzione ci sono diversi ritrovamenti archeologici, ma non catacombe.
Terminata la lottizzazione del parco, della villa Patrizi era rimasto il fabbricato (peraltro un rifacimento di quello settecentesco, distrutto da un incendio nel 1849) con un po’ di giardino intorno. Nel 1907, sono le Ferrovie dello Stato, costituite da un paio d’anni, ad acquistare la residua proprietà: l’edificio è abbattuto e iniziano gli scavi per gettare le fondamenta delle due nuove costruzioni: il Ministero dei Lavori Pubblici e la Direzione Generale delle stesse FS.
E qui entra in scena Rodolfo Lanciani, ingegnere, topografo e archeologo della romanità, fra i maggiori testimoni degli interventi che hanno profondamente modificato struttura e urbanistica della Roma papalina (tant’è che gli sono stati intitolati sia una via che un largo, sempre nel quartiere Nomentano). Le Ferrovie gli affidano il compito di verificare tutto ciò che, rinvenuto durante gli scavi per la loro nuova sede, abbia un interesse geologico e storico, analizzando ciò che era stato trovato e facendo portar via quanto può essere salvato. Nel maggio 1918 la costruzione del palazzo è ancora in corso, ma stanno terminando i lavori interessanti il compito affidatogli; così il Lanciani redige un’ampia relazione, intitolata “Delle scoperte di antichità avvenute nelle fondazioni degli edificii per le Ferrovie dello Stato nella già Villa Patrizi in Via Nomentana” e corredata da dettagliate tavole, disegni e fotografie; pubblicata pochi mesi dopo, è ad essa che dobbiamo molte delle notizie fin qui riferite. Lanciani descrive dettagliatamente, tra l’altro, i ritrovamenti sotto il costruendo palazzo di varie gallerie cimiteriali cristiane, da lui definite di Nicomede; continua però ad associarle alle “piccole catacombe di Nicomede” scoperte dal De Rossi nel 1864 (che invece erano parecchio più in là, sotto via dei Villini).
Sulla base di tale relazione, nonché di altri ritrovamenti negli anni successivi, a dire la parola conclusiva sulla vicenda è Enrico Iosi, ispettore della citata Commissione di Archeologia Sacra, pure lui eminente archeologo (la sua strada sta però a Casal Palocco); Iosi concluse che molte delle gallerie trovate dal Lanciani sono parte del cimitero di Nicomede, modificando così la consolidata interpretazione del De Rossi, e preferendo definire il cimitero da questi ritrovato nel 1864 come “ipogeo anonimo di via dei Villini”. Gli fa eco con ulteriori argomenti, in una pubblicazione del 1932, un discepolo e collaboratore di De Rossi, Orazio Marucchi (che nel Nomentano ha una piazza vicino via Lanciani) che riferisce che nel 1920 oltre trenta gallerie rinvenute nelle fondazioni dell’edificio FS sono state riconosciute come “vero cimitero di Nicomede … mi associai a tale conclusione perché, avendo seguito … le identificazioni proposte dal de Rossi, non mi ero però potuto spiegare l’estrema piccolezza dell’ipogeo, mentre sembra che il cimitero di Nicomede dovesse essere assai ragguardevole”. Altri più recenti studi aggiungono che tale cimitero doveva essere molto vicino alle Mura Aureliane, e pure ciò ben si accorda con la sua identificazione nelle gallerie rinvenute sotto il fabbricato ferroviario.
Dobbiamo così concludere che il portone di via dei Villini, nonostante la scritta che c’è sopra, non dà accesso alle catacombe di Nicomede, ma ad un diverso e più piccolo ipogeo. Le vere catacombe in questione sono dove sta ora il palazzo delle Ferrovie di piazza della Croce Rossa; in parte distrutte realizzando le fondamenta di tale edificio, in altra parte ancora lì sotto ma, ahimè, inaccessibili.
Passando a ricostruire la storia dei resti del Santo, torniamo indietro di dodici secoli e ci spostiamo sull’Esquilino, alla Basilica di Santa Prassede, fatta edificare da Pasquale I, papa dall’817 all’824. Gioiello dell’Alto Medioevo, la chiesa è ricchissima di opere d’arte; a noi interessa per un’antica lapide al suo interno, ove si ricorda che ”riposano in questa Chiesa di S. Prassede due mila trecento corpi de SI. Martiri pòstivi da S. Pasquale Papa Primo”; di questi, un’altra lapide – forse dell’epoca di costruzione della chiesa – ne elenca per nome ottantasei, fra cui appunto Nicomede. Una ricerca delle reliquie residue è intrapresa nel 1729; alcune furono ritrovate, ma solo in piccola parte identificate. Ora stanno composte nella cripta in quattro sarcofaghi, tre anonimi e uno coi nomi della stessa Prassede e sua sorella Pudenziana. Non vi è quindi alcun sepolcro di Nicomede e, data l’evidente perdita della maggior parte dei 2.300 resti (e la commistione di quelli residui), non è dato sapere se, fra quanto rimasto, vi siano i suoi. La ricerca finisce qui?
No. Esiste infatti una vecchia cronaca, ove si narra che nell’876 (circa sessant’anni dopo la traslazione di Nicomede a Santa Prassede) il vescovo di Parma, Guibodo, si reca in pellegrinaggio a Roma, e ritorna nella sua diocesi portando con sé le reliquie di due Santi (Giovanni Calibita e Ciriaco). Non si fa menzione di Nicomede; ma possiamo ipotizzare che, oltre a ciò che il Papato gli aveva concesso ufficialmente, Guibodo abbia in qualche modo, come dire … arrotondato, prendendosi – se non a S. Prassede, nella vecchia chiesa di Porta Pia o in una galleria sottostante ancora accessibile – una parte dei resti del nostro Santo, per qualche motivo lì rimasti. Tale tesi è attendibile in base a un altro documento dell’885, nove anni dopo, con cui l’Imperatore Carlo il Grosso dona a Guibodo una proprietà in località “Fontanabroccola”, ai confini della diocesi di Parma con quella di Piacenza ”onde ne faccia dote alla Chiesa in cui si dovrà riporre il corpo del martire Nicomede”.
Quest’edificio esiste ancora; se si ha occasione di passare da quelle parti (sta a pochi chilometri da Salsomaggiore) vale la pena di visitarlo. È in un parco regionale, in mezzo a prati verdi, a pochi passi da un bosco con un fiume; vi regna un’atmosfera di pace e tranquillità, quasi magica. Là, già prima dell’avvento del cristianesimo, scaturiva una sorgente considerata miracolosa, per i pagani sacra, che continuò a essere tale anche per la nuova religione. L’acqua della fonte “broccola” – cioè traboccante – era ritenuta benefica in particolare per i dolori alla testa; tanto che i pellegrini usavano arrivarci tenendo sul capo una pietra o un mattone, che poi lasciavano vicino alla stessa fonte (e forse il mal di testa passava … proprio per questo!).
Utilizzando anche i materiali lasciati dai pellegrini fu edificata la bella chiesetta indicata dall’Imperatore, attribuendo i poteri miracolosi dell’acqua al nostro Martire. Restaurata nel 1909, all’esterno appare in pietre e mattoni rossi [vedi figura]; al suo interno si sovrappongono diverse fasi costruttive: l’abside è duecentesca e l’aula del Trecento; ma l’ambiente più suggestivo è la piccola cripta del IX secolo [vedi figura], a tre navate sorrette da quattro colonne di spoglio, due romane e due longobarde. A sinistra si vede il pozzo dell’antica sorgente, non accessibile perché chiuso da una grata (se si ha mal di testa, ci vuole un cachet). Di Nicomede c’è, dietro l’altare maggiore, una statua lignea, ma nient’altro: infatti – pure se il culto del Santo qui si protrae ininterrotto da undici secoli – i suoi resti ci sono stati pochi anni. Per sottrarli alle scorrerie degli Ungari (popolo nomade d’origine asiatica che in quel periodo devastava il nord Italia) infatti, già nel 913 sono trasferiti nel Duomo di Parma, e bisogna cercarli lì.
La Cattedrale parmense, a croce latina, esternamente romanica, dentro è rinascimentale; stupenda la cupola, affrescata nel Cinquecento dal Correggio con una celebre Assunzione della Vergine. Del nostro Santo però nessuna traccia; ma è proprio questa la Chiesa dove furono portate le reliquie di Nicomede?
Sì e no. In effetti, la prima notizia sull’esistenza di un Duomo a Parma è dell’anno 830; è lì che nel 913 sono trasferiti i resti del Martire; ma pochi anni dopo, nel 920, l’edificio è distrutto da un incendio. Ricostruito, tale secondo Duomo è danneggiato dalle fiamme nel 1038 e bruciato nell’incendio di Parma del 1058. Rifatto una terza volta, è ridanneggiato in un terremoto del 1117 e di nuovo restaurato: è quest’ultimo l’edificio attuale. Possibile che, fra tutte queste distruzioni e ricostruzioni, qualche reliquia si sia salvata?
Ebbene sì. Un vecchio documento in latino, custodito nell’Archivio della stessa Cattedrale, racconta che nel 1587 viene collocata nell’altare maggiore [vedi figura: Altare Maggiore del Duomo di Parma] un’urna contenente “corpora Sanctorum Herculani, Abdonis … et dimidium corporis Sti. Nicomedis martyris” cioè – udite udite – “la metà del corpo di S. Nicomede martire”. Nel 1983, in occasione di lavori nel presbiterio, è eseguita una ricognizione, ritrovando sotto lo stesso altare una cassetta con vari resti, divisi fra quattro scomparti, nel terzo dei quali c’è una targa metallica, con scritto “SS. MM. NICOMEDES ET HERCULANUS”, nonché ossa appartenute a due diversi individui, con caratteristiche tali da avvalorarne almeno la vetustà. La cassetta è lì ricollocata, per cui possiamo sostenere, pur con le incertezze del caso, che alcune delle probabili reliquie del martire – custodite per settecento anni vicino a Porta Pia – sono ora sotto quell’altare [vedi figura].
Perciò, se esistono ancora devoti di Nicomede, o comunque c’è chi che vuole rendergli omaggio, bisogna per forza recarsi a Parma?
Non è necessario, basta andare in via Nomentana 60, alla citata chiesa di S. Giuseppe. Alle sue decorazioni ha lavorato, fra gli altri, il pittore Eugenio Cisterna. Studioso dell’arte paleocristiana, dipinse in molti edifici religiosi, vecchi e nuovi, iniziando nel 1882 dalla cripta di Sant’Agnese in Agone. L’archeologo De Rossi è talmente colpito dalle opere realizzate in questa chiesa che lo prega di scrivere ben visibile la data, ad evitare che si confondano con quelle antiche. Il Cisterna collabora spesso col Busiri Vici (lui però, a differenza dell’architetto, una strada ce l’ha, ad Acilia) e a S. Giuseppe realizza nel 1907 la decorazione delle tre absidi; nella principale, al centro del catino c’è ovviamente il padrone di casa, Giuseppe; ma accanto a lui vediamo sulla destra un anziano benedicente, con aureola dorata, barba bianca e, ai lati, la scritta “SCS NICOMEDES PRESBITER”: ecco, abbiamo così una sua immagine [vedi figura].
Va pure meglio se, tornando verso Porta Pia, ci si ferma al n.8, dov’è l’altra chiesa citata, quella delle Suore Religiose dell’Eucarestia, intitolata al Corpus Domini. Anche in quest’edificio, intorno al 1910, lavora il Cisterna nella navata centrale e nell’abside,; e pure qui vediamo, in fondo a sinistra, sotto un’immagine di S. Pietro, altre due figure divise da una colonna, una delle quali è, come scritto, ”S. Nicomedes”: sempre un anziano con aureola, barba bianca e in mano, stavolta, una Pisside [vedi figura].
Sotto è infine dipinta una scena più articolata, con lo stesso vecchio ormai esanime, trasportato dentro un lenzuolo da varie persone, fra cui spicca un altro uomo con sulla spalla … un remo; chi sia e che stia facendo ormai lo sapete, anche senza tradurre la sottostante iscrizione: “Iustus corpus Nicomedys Presbiteri et martirys diligenter conquisitum ad muros Urbis via Nomentana honorifice in sepulcro condidit” [vedi figura].
Resta un piccolo mistero, che con un po’ di fortuna forse si risolve. Infatti le Religiose dell’Eucarestia – scopriamo per caso – sono costituite a Bruxelles nel 1856; ebbene, la fondatrice si chiamava Anne … “De Meeüs”. La pronuncia appare ostica per un italiano, per cui è facile si siano perse la seconda “e” e la dieresi sulla “u”, divenendo così De Meus; cioè il nome – oltre che, pare, della citata palazzina di Busiri Vici accanto alla chiesa di San Giuseppe – della predetta strada interna fra Ferrovie dello Stato Italiane e Ministero delle Infrastrutture: un piccolo omaggio all’Ordine religioso che perpetua la memoria di Nicomede, il Santo di Porta Pia.
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