Il pino di Monte Mario

Passando nel parco del Belvedere sotto lo Zodiaco si nota un tronco molto molto vecchio, una specie di fossile.  Ecco a voi la sua storia.   

Il pino di Monte Mario era un albero sulla sommità del colle, a pochi passi da villa Mellini che fu notato e amato da una serie di artisti, letterati e grandi uomini.  I racconti di tali uomini, oltre a colpirci per l’alto ideale di bellezza che li muoveva, rivelano come i punti di riferimento storici di un territorio (una chiesetta, una statua, un’epigrafe, un resto archeologico; o un albero, nel nostro caso) siano percepiti come autentici custodi di luogo stesso; al pari di guardiani che, per l’autorità che deriva dalla loro antichità, possano salvaguardarlo e proteggerlo.

Nel Settecento un pino (un comune pino romano, caratteristico del paesaggio della città) cresce sull’altura di Monte Mario, nei pressi di villa Mellini.  L’albero cresce vigoroso, indisturbato. Lo si può ammirare di lontano, poiché alla ragguardevole altezza somma i più di cento metri del colle in quel punto e il suo profilo si staglia contro il cielo azzurrino di Roma divenendo col tempo parte inconfondibile del panorama.

Nel 1821, fra i turisti europei insigni è Sir George Beaumont (1753-1827), mecenate, collezionista e pittore dilettante. Beaumont è reduce da una gita nei pressi di Bolsena dove, con suo orrore, ha notato una foresta secolare tagliata e bruciata. Lo spettacolo lascia in lui una profonda ferita. Poco tempo dopo sir George è a Roma; qui vede il nostro pino “magnificamente situato in splendido isolamento … sulla cima di Monte Mario”: ne rimane incantato. Per far sì che nessuno ne intacchi la bellezza, permettendo anche alle generazioni future di goderne la vista, Beaumont offre una forte somma per il suo acquisto. La compravendita si risolve felicemente: il pino di Monte Mario può ora vivere tranquillo.

Nel 1834, lo scrittore Hans Christian Andersen è a Roma e grazie a Beaumont, anche  Andersen può godere della vista del pino e lo ritrae in uno schizzo veloce.

Nel 1837, il poeta William Wordsworth, amico del Beaumont,  arriva a Roma e, pochi giorni dopo, scrive alla famiglia in Inghilterra: “Eravamo appena da due ore a Roma quando salimmo sul Pincio presso il nostro albergo: il sole era appena tramontato ma il cielo a ponente era risplendente.  Una gran parte della Roma moderna si stendeva dinanzi a noi e San Pietro si elevava sul lato opposto; e per amore del caro Sir George Beaumont dirò che a non troppa distanza dalla cupola della basilica, sulla linea dell’orizzonte in fiamme si vedeva un pino dalla larga chioma, che sembrava una nuvoletta nel cielo, con un sottile stelo che lo univa alla sua terra nativa … quello stesso pino che io ammiravo tanto era stato acquistato dal caro Amico, affinché potesse sopravvivere finché la Natura glielo avesse permesso …”.  In onore dell’albero e dell’Amico, Wordsworth scrive una poesia.

1854. Gli scrittori inglesi Elizabeth Barrett e Robert Browning accennano alla maestà del pino.

1873. Lo scrittore americano Henry James ne rimane colpito: “La cupola larga e lontana, sorretta da un’unica colonna, bianca abbastanza da sembrare di marmo, pare dimorare nelle più vertiginose profondità dell’azzurro. I suoi pallidi rami grigio-celesti e l’argenteo stelo si fondono in meravigliosa armonia con l’aereo ambiente”.

1887. Costantino Maes nel “Cracas” annota: “Esso è il più protervo e longevo pino, di cui si adornino i nostri colli, unico rispettato fin’ora dalle ire celesti …. emulo della mistica quercia del Tasso sul Gianicolo …”.

1909. Il pino è ancora annotato come esistente in una guida di Roma.

1975-76. Luciana Frapiselli, storica devota del territorio di Monte Mario, viene contattata, dall’Inghilterra, da uno studioso inglese, Frederick A. Whiting che, dopo averle narrato la storia del nostro pino, ne chiede una foto o una stampa.  La Frapiselli si mette in marcia, coadiuvata da amici e parenti. Del pino, tuttavia, non trova traccia. Si ricorda, però, d’un periodico, “Monte Mario”. Scrive, quindi, alla sua redazione che, prontamente e gentilmente, la rimanda a due articoli di Livio Jannattoni su “La Strenna dei Romanisti” (1958 e 1961) in cui è tratteggiata la storia dell’albero e la stessa Frapiselli ritrovadue stampe (una del 1872, e un’altra del 1841) che invia a Whiting.

2021. Ma, direte voi, il pino che fine ha fatto? Sappiamo anche questo. In un numero arretrato di “Monte Mario” (20 dicembre 1970), Umberto Nistri, aviatore e cartografo, scrive: “Dalla città [l’altura di Monte Mario] presentava il pittoresco panorama … di un altissimo e imponente pino secolare, che venne abbattuto [da una tempesta] in quegli anni e di cui io, per puro caso, assistetti alla caduta dalla finestra della mia casa, attratto dal fragore del tronco che si schiantava alla base e il cui diametro superava il metro di parecchio. Vedo ancora la chioma a forma di immenso ombrello oscillare nel vento e cadere rovinosamente al suolo. Sotto quel pino aveva sostato in riposo e in meditazione Liszt, durante il suo soggiorno romano, ospite dei frati della vicina Chiesa del Rosario”.

Il pino, quindi, non c’è più, abbattuto da una tempesta nei primi decenni del Novecento. La sua vita di 150 o 200 anni non è stata, però, invano. Presso la sua ombra hanno riposato in migliaia; grandi artisti ne hanno celebrato la bellezza tramandando, al contempo, la bellezza di Roma. Esso si trasformò lentamente in un custode del territorio così come i Lari degli antichi Romani, statuine degli antenati che avevano il compito di proteggere la casa e i familiari che vi abitavano.

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