Un bambino in toga di Domenico Augenti

Quando nel 1871, per motivi di viabilità, è stata demolita la Porta Salaria delle Mura Aureliane tra pietre e calcinacci della torre orientale venne fuori un bianco altare funebre, con la statua di un fanciullo in toga che tiene in mano un rotolo su cui è incisa una poesia.  Era la  Tomba di Sulpicio Massimo che oggi possiamo vedere dietro il grande cancello di via Piave 45, all’angolo con la via che prende il nome del giovane poeta, via Sulpicio Massimo.

Tutto quello che sappiamo di lui sta scritto in latino e in greco, la lingua dotta dell’epoca, sulle due lunghe iscrizioni sepolcrali. Leggendole scopriamo che l’imperatore è Domiziano e che i genitori del ragazzo erano due schiavi. Ce lo dicono i loro nomi: Quinto Euganeo e Lininia Ianuaria. Il padre proveniva probabilmente dalla regione tra le Alpi orientali e l’Adriatico, abitata anticamente dagli Euganei e poi dai Reti, conquistata dai Romani nel I secolo a.C.  Al nome della madre Lininia il padrone deve avere aggiunto la sua funzione servile: Ianuaria significa infatti portinaia.

La coppia non era sposata perché ai servi era vietato un regolare matrimonio. I padroni però spesso consentivano allo schiavo di scegliere una tra le serve e di creare con lei un’unione di fatto chiamata contubernium, del tutto priva di effetti giuridici.  Solo dopo molti secoli sarà vietato al padrone di vendere separatamente i due servi uniti in contubernio e in ogni caso i figli nati da quell’unione di fatto sono schiavi del padrone della donna che li aveva generati.

Il nome del ragazzo, Quinto Sulpicio Massimo, ci fornisce altre interessanti informazioni.  Uno schiavo nato in casa (verna) suscitava generalmente la simpatia dei padroni e anche una loro propensione a liberarlo prima o dopo. E’ quello che deve essere accaduto al nostro ragazzo. I genitori lo avevano voluto chiamare Massimo.  Un nome romano di grande prestigio che ci dice quante ambizioni nutrissero per l’avvenire di quel loro figliolo.  Non doveva assolutamente patire le sofferenze e le umiliazioni che avevano provato loro e la gente doveva avere rispetto e stima per lui.  Un giorno forse avrebbe potuto indossare la toga del cittadino romano, un capo di vestiario che i servi non potevano indossare.  E Massimo comprese, fece sue le ambizioni dei genitori e le assecondò il più possibile.  A scuola era talmente bravo che persino il padrone ne andava fiero.

Con la liberazione, il loro figlio aveva ricevuto per legge lo stesso prenome e nome del padrone che lo aveva affrancato. Si chiamò quindi Quinto Sulpicio Massimo, tutti nomi indiscutibilmente romani (la gente Sulpicia era una nobilissima stirpe romana) ma soprattutto era libero: poteva vestire la toga, sposarsi e votare.  Come figlio di schiavi non avrebbe potuto essere eletto a cariche pubbliche, ma avrebbero potuto esserlo i suoi figli, che sarebbero nati da un uomo libero.

Massimo ha appena undici anni, è poco più di un bambino ma deve assolutamente affermarsi e si applica molto allo studio.  Essendo libero, Massimo può partecipare al terzo concorso di poesia greca, chiamato “agone capitolino”.  E se riuscisse ad arrivare tra i primi sarebbe un ottimo risultato. I genitori hanno profuso ogni impegno per raggiungere questo obiettivo.  Magari attingendo ai loro risparmi, quel denaro raccolto con le regalie del padrone e dei suoi amici, spesso accumulato dai servi per offrirlo ai padroni in cambio della loro libertà.  L’agone capitolino era imminente e per Massimo sarebbe stata una dura competizione: l’iscrizione di piazza Fiume, infatti, ci dice che alla gara sulla migliore poesia greca si erano iscritti a partecipare ben cinquantadue poeti.

La composizione dell’undicenne Quinto Sulpicio Massimo è brillante e incanta i giudici.  Un vero bambino prodigio!   Quel giorno Quinto e Lininia non stanno nella pelle dalla gioia.   Lo sforzo però è stato troppo grande e l’eccessivo impegno nello studio indebolisce il bambino. Come scritto nell’iscrizione sepolcrale, le forze lo abbandonano, si ammala e muore. 

I genitori in lacrime mettono mano a quanto restava del loro peculio. Non vogliono essere da meno degli aristocratici che fanno scolpire monumenti funebri per documentare nei secoli il successo conseguito. L’altare di Massimo doveva avere lo zoccolo di travertino e un cippo di marmo bianco con frontoni e acroteri.  E nell’interno i posteri dovranno vedere la sua immagine, ma soprattutto la sua toga di libero cittadino romano.  E la poesia con la quale aveva vinto quella gara dovrà  essere ricordata a tutti, riportandone per intero il testo in lingua latina e greca sull’altare funerario.

E per quasi due secoli quei due genitori sono riusciti nel loro alto intento. Il bianco altare con la statua del loro Massimo vestito di un’abbondante toga romana era restato infatti bene in vista sul luogo della sepoltura dal 94 fino al 276 d. C.

Ma di fronte alla minaccia incombente dei barbari giunti a Milano, l’imperatore Aureliano fece costruire in fretta le mura (ndr Mura Aureliane) a difesa dell’Urbe e non esitò ad occultare il sepolcro, inglobandolo dentro una delle due torri della Porta Salaria.

La storia di Quinto Sulpicio Massimo però era destinata a riemergere e a riproporsi ai posteri dopo quasi milleseicento anni, quando nel 1871 l’altare viene scoperto all’interno della porta demolita. Così la fama di quel bambino-poeta e dei suoi genitori finiva per oltrepassare il ventesimo secolo.

Davide Augenti

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Tomba di Sulpicio Massimo

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