Il giudice Vittorio Occorsio fu ucciso nel 1976 da Ordine Nuovo in via Mogadiscio, a pochi metri dal portone di casa.
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Vittorio Occorsio era entrato in magistratura alla fine degli anni Cinquanta ed era balzato agli onori della cronaca nel 1967 quando aveva assunto la difesa dei giornalisti Eugenio Scalfari e Lino Iannuzzi, i quali dalle colonne dell’Espresso avevano denunciato le manovre golpiste del generale De Lorenzo, e da quest’ultimo erano stati denunciati per diffamazione.
Nel 1969, dopo la strage di Piazza Fontana, il giudice Occorsio si era occupato del primo interrogatorio di Pietro Valpreda contestandogli l’omicidio di quattordici persone e il ferimento di altre ottanta.
Nell’aprile del 1976, fu il primo magistrato a occuparsi della loggia massonica segreta denominata loggia P2 e a indagare sui rapporti tra terrorismo neofascista, massoneria e apparati deviati del Sifar. In precedenza Occorsio si era occupato anche del golpe Borghese. Il convincimento in lui maturato al termine delle indagini è sintetizzato in una significativa dichiarazione fatta all’amico e collega Ferdinando Imposimato: “Sono certo che dietro i sequestri ci siano delle organizzazioni massoniche deviate e naturalmente esponenti del mondo politico. Tutto questo rientra nella strategia della tensione: seminare il terrore tra gli italiani per spingerli a chiedere un governo forte, capace di ristabilire l’ordine”.
Il 10 luglio del 1976, di mattina il magistrato lasciò la sua abitazione in via Mogadiscio per andare al cimitero a trovare il padre. Era una giornata luminosa tipicamente estiva. La macchina uscì dal garage, Occorsio fece un cenno di saluto al portiere e come di consueto percorse la discesa fino all’incrocio con via del Giuba.
Qui tre uomini armati di mitra che si disposero a semicerchio davanti alla vettura. Il giudice intuì subito le intenzioni degli sconosciuti e d’istinto tentò la fuga. Ma fece appena in tempo ad aprire la portiera che una grandinata di proiettili lo investì sul volto e sul torace. L’assassino ne sparò almeno quindici, mentre un suo complice ne sparò altrettanti in aria per creare confusione e paura tra i passanti.
Il magistrato rimase accasciato senza vita sul sedile, il capo reclinato verso l’esterno, e il sangue che sgorgava sull’asfalto. Il terzo uomo aprì lo sportello posteriore, frugò tra le carte del giudice e lasciò cadere una decina di volantini firmati “Movimento Politico Ordine Nuovo” che rivendicavano l’esecuzione del magistrato, ucciso perché “per opportunismo carrieristico, serviva la dittatura democratica, perseguitando i militanti di Ordine Nuovo e le idee di cui essi sono portatori”.
La notizia arrivò fulminea nelle redazioni dei giornali, e l’Italia sprofondò in un’angoscia che sarebbe stata lo sfondo cupo degli anni Settanta. Quello era un omicidio che partiva da lontano, che affondava le sue radici nella strategia della tensione iniziata parecchi anni prima.
Testo tratto da un articolo di Fabio Capecelatro.
Una targa è apposta oggi sulla palazzina in cui abitava a via Mogadiscio.
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