Villa Gloria 1876

“Villa Gloria 1876”, di Cesare Pascarella è un componimento poetico costituito da 25 sonetti che raccontano con dovizia di particolari la sfortunata impresa garibaldina guidata dai Fratelli Cairoli e terminata tragicamente a Villa Glori.  Nel seguito è riportata la prefazione alla prima stampa dell’opera redatta, nientepopodimeno, da Giosuè Carducci.

“Sonetti in dialetto romanesco, originali, – che dopo il Belli pare impossibile, – ha trovato modo di farne Cesare Pascarella. Già in quelli de Morto de campagna e della Serenata diè a divedere anni addietro la potenza che aveva a intuire e rendere la verità austera. In questi di Villa Gloria il Pascarella solleva di botto con pugno fermo il dialetto alle altezze epiche.

Tutto qui è vero: non è il poeta che parla, è un trasteverino che vide e fece: per ciò l’epos nasce naturale e non per convenzione, nella forma dialettale. Il trasteverino è uno egli stesso, ripeto, dei settanta; ha quindi un animo quale ci bisognava alla gran gesta; ha la osservazione profonda e sicura, per quanto commossa, delle cose e degli uomini; ha il cuore risoluto e pietoso: senza descrizioni, senza divagazioni, senza fantasticherie (ché non c’era tempo), ma tenendo conto di tutti i particolari (ché a tutto si doveva badare per vincere o per morire bene, un gruppo com’erano), egli racconta; e nella lontananza di diciotto anni l’ardore rimeditato e risentito dell’animosa sua gioventù gl’illumina del bagliore d’una fantasia severa il racconto; e in quel racconto, nel conspetto di Roma, fra il Tevere e l’Aniene, in quella campagna, con quei nomi, a quella stagione, dalle concitazioni del duro e muscoloso linguaggio la linea epica si solleva e si distende per i venticinque sonetti monumentale.

Non mai poesia di dialetto italiano era salita a quest’altezza. Grandissima l’arte e la potenza del Porta e del Belli, ma in una poesia che nega, deride, distrugge: classica quanto si vuole l’arte del Meli, . ma fuor della vita, in un’Arcadia superiore. Scolpire la idealità eroica degli italiani che muoiono per la patria, con la commozione d’un gran cuore’ di’popolo; con la sincerità d’un’ uomo d’azione, in poesia di dialetto nessuno l’aveva pensato, nessuno aveva sognato si potesse. Ho caro che la prova sia riuscita a questi giorni che paiono di abbassamento e che l’abbia fatta un romano.”

I
A Terni, dove fu l’appuntamento,
Righetto ce schierò in una pianura,
E li ce disse: – Er vostro sentimento
Lo, conosco e non c’è da avé’ pavura;
Però, dice, compagni I ve rimmento
Che ‘st’impresa de noi nun è sicura, E Roma
la vedremo p’un momento
Pe’ cascà’ morti giù sott’a le mura.
Per questo, prima de pijà’ er fucile, Si
quarcuno de voi nun se la sente, Lo dica
e sòrta fora da le file.
Dice: – Nun c’è nessuno che la pianta?
E siccome nessuno disse gnente, Dopo
pranzo partissimo in settanta.

II
E marciassimo fino a la matina
Der giorno appresso. Tutta la nottata.
A l’arba poi, fu fatta ‘na fermata
Su l’erba zuppa fracica de brina.
Traversassimo un fiume de rapina,
Lassassimo la strada, e traversata
‘Na macchia, se sboccò su ‘na spianata
E venissimo in giù pe’ la Sabina.
Dove che dietro a noi c’era pe’ scorta
‘N onibussetto tutto sganghenato,
Dov’uno ce montava un po’ pe’ vorta.
Pe’ strada er celo ce se fece cupo,
E venne l’acqua che nun ci ha Iassato,
Finché non semo entrati a Cantalupo.

III
A Cantalupo, drento a ‘na chiesola,
Righetto ce divise in tre sezione.
E dopo avecce letta l’istruzione,
Fece: – Ripeto n’antra cosa sola:
Si fra voi c’è quarcuno che ciriola,
Lo dica e nun se metta soggezione.
Nessuno rifiatò. Fece: – Benone!
Vedo che sete tutti de parola.
Ma perché nun ce sia nessun intoppo
(è inutile a sta’ a fa’ mezze parole),
S’io morissi, c’è l’antro che viè’ doppo.
E lì de novo tutti in marcia. Arfine,
Caricassimo tutti le pistole,
E a Corese passassimo er confine.

IV
E a l’arba, mentre c’era un temporale,
‘Rivorno da Firenze li cassoni
Dove c’ereno drento li foconi
De quelli de la guardia nazionale.
Fumo depositati in un casale,
E dopo, assieme a l’antre munizioni,
i portassimo drento a du’ barconi
Presi da ‘n capopresa padronale.
Fatto er carico, sopra a ‘gni barcone
Ce fu messa la legna e fu ridotto
Come quelli che porteno er carbone:
In modo ch’uno non capisse gnente.
Poi dopo s’accucciassimo de sotto
E venissimo in giù co’ la corrente.

V
In modo ch’uno non capisse gnente.
Poi dopo s’accucciassimo de sotto
E venissimo in giù co’ la corrente.
Sentimio da la riva la trombetta
De le truppe der papa. A Teverone,
Verso notte, se scénse e ‘gni sezione
Fu dislocata drento a ‘na barchetta.
E me ricordo ch’una era tarlata,
E che cor sego e co’ li stracci pisti
Lì su la riva fu calatafata.
Dopo annassirno da li doganieri,
Li legassimo tutti come Cristi,
E fumo fatti tutti prigionieri

VI
Dopo fatta ‘sta prima operazione,
Lì, ce se fece notte in mezzo a fiume:
C’era nell’aria come ‘n’oppressione
De fracico -e ‘na puzza de bitume:
Nun se sentiva che scrocchià’ er timone
Pe’ nun impantanasse ner patume;
E verso Roma, in fonno a l’estensione,
Se vedeva riluce’ come un lume:
Un lume che sur celo era ‘n chiarore.
E lì pe’ fiume, in quer silenzio tetro,
Far che l’acqua nun c’era antro rumore.
E in fonno a la campagna, a l’aria quieta,
De notte, er cupolone de San Pietro
Pareva de toccallo co’ le deta.

VII
Sangue de la Madonna! Che nottata!
Quanno che me ritorna a la memoria,
Me pare come un pezzo de ‘na storia
Che quarcuno m’avesse ricconrata.
Avemio de sta’ a Roma a fa’ l’entrata
Pe’ trovacce la morte o la vittoria,
E invece er giorno dopo a Villa Gloria..,
Destino! Basta, sotto a la spianata,
A mezzanotte, in mezzo a la corrente
Se fermassimo p’aspettà’ er chi-viva,
Aspetta, aspetta, aspetta, .. Gnente!
Gnente!
Riguardassimo’ bene de li intorno:
Manco un’anima! Annassimo a la riva,
Per aspettà’ che se facesse giorno.

VIII.
E a l’arba fu smontato dar battello,
E piano piano, senza move’ un deto,
Perchè non se scoprisse er macchiavello,
S’agguattassimo drento in un canneto.
Dopo, Righetto fece cér fratello:
Annate in cinque su pe’ ‘sto querceto,
E scannajate un po’ pe’ ‘sto stradello
Si ce fosse un ricovero segreto,
Ché staremo a vedé’ ‘quer che succede;
Intanto lì ce se potrà rimane’
Finché quarcuno nun se faccia vede’.
E mentre an’namio sopra, intorno intorno
Se sentiveno batte’ le campane
De Roma, che ce daveno er bongiorno!

IX.
Pe’ la macchia trovarno un frattarolo.
– Faccia a terra, percristo! – Poveretto!
L’intorcinamo drento ar farajolo
E j’appuntamo le pistole in petto.
E lì, ner mentre lo tenernio stretto,
Giovannino je fa: – Voi siete solo?
Dice: – Per carità, so’ er vignarolo;
Mi’ moje è annata a Roma cor carretto;
lo so’ ‘n povero padre de famija.
– Ce so’ li papalini? – So’ innocente.
Fate la spia? – Me faccio meravija!
– Be’, allora dice, datece ristoro. ¬
E pe’ fàcce pijà’ pe’ bona gente
Je fu pagata ‘na moneta d’oro.

X
E quer vecchio tremanno de pavura
Ce portò sopra ar monte, in un casale,
Che invece era ‘n casino padronale
Dove che ce se va in villeggiatura.
Fu aperto. Visitassimo le mura;
E dopo avé’ girato pe’ le sale
E avé’ visto che lì tanto er locale
Quanto la posizione era sicura,
Fu marinato a chiama’ l’antri de sotto;
Furno messi 11 intorno l’avamposti,
E poi fu fatto un piccolo complotto.
E mannassimo a Roma, ar Comitato,
Uno, pe’ dije che stamio anniscosti
Sintanto che non fosse ritornato.

XI
Dopo, Righetto assieme a Giovannino
Sortirno dar casale e perlustrorno
Li contorni, e siccome lì vicino
Scoprirno ‘na casetta, ce rnannorno
Tre fazioni, perché si de lì intorno
Se fosse visto quarche papalino,
Ce dassero er chi-viva su ar casino.
Defatti, poco dopo mezzogiorno,
Vengheno su de corsa du’ fazioni;
E dice: – Che li passino ammazzalli!
S’è vista ‘na patuja de dragoni.
Se so’ avanzati fino sotto ar muro;
Hanno dato la fuga a li cavalli,
E so’ spariti in giù pe’ l’Arco Scuro.

XII
Righetto allora, ch’ebbe er sentimento
Che la patuja de ricognizione
Voleva di’ l’annunzio der cimento,
Chiama Giovanni assieme a la sezione
Che c’ero io pure, e dice: – Sur momento –
Va a la casetta e pia la posizione.
Annamo, e mentre starnio chiusi drento,
Dice: – All’armi! Ce semo. Un battajone!
Sortimo. Se mettemo alliniati,
(Saremo stati in tutto dicissette l),
E guardamo, giù, sotto ne li prati:
E in fonno, fra le fratte de li sptru.:
Vedemo luccicà’ le bajonette. –
Viva l’Italia! So’ li papalini.

XIII
Arrivati a la porta der cancello,
La tromba dà er segnale foc-avanti.
Se fermeno. Scavarcheno er murello,
E incorninceno er foco tutti quanti .
E mentre stamio tutti li davanti
A la casetta, drento ner tinello
Er vignarolo in mezzo a quer fragello
Stava a cantà’ le litanie de’ santi .
E intanto ch’er nemico s’avanzava
E ‘gni palla fischiava pe’ cinquanta,
Sentirnio Giovannino che strillava,
Imperterrito immezzo a la tempesta,
Dice: – Pensate che semo settanta
E che ci avemo sei cartucce a testa.

XIV
Nun sparate che quanno so’ vicini. –
E intanto che veniva un battajone,
Se vedeveno l’antri papalini
Che saliveno in su pe’ lo stradone.
Perelio! Nun se spregamo li quatrini! ¬
Strillava Giovannino. – Attenti.
Unione. Nun sparate che quanno so’ vicini.
Fermi. Fermi, perdi o ! Fermi. Attenzione …
E intanto che le truppe s’avanzaveno,
Che se po’ eli’ che stamio faccia a faccia,
Le palle, fio de Cristo, furminaveno.
Ma quanno che ce corse tanto poco,
Che quasi je potemio sputà’ in faccia,
Ninetto urlò: – Viva l’Italia! Foco! –

XV
E li ner mejo der combattimento
De lotta a còrpo a còrpo davicino,
Ecco Erigo fuggenno come er vento;
Guarda la posizione un mornentino,
E strilla, dice: – Addietro, sacramento!,
Ché ve fregheno. Addietro, Giovannino.
Addietro, ché restate chiusi drento
Prigionieri. De corsa! Giù ar casino! –
Lì a la mejo facessimo er quadrato,
E vortassirno in giù pe’ lo stradone
Dietro a Righetto a passo scellerato.
E arrivati ar casale s’agguattassimo
Tra le rose e le piante de limone,
E accuccia ti lì sotto l’aspettassimo.

XVI
Allora, dopo questo, li sordati
Che nun capirno ch’era ‘na finzione,
Credennose che fossimo scappati,
Vennero pe’ pijà’ la posizione.
E mentre starnio tutti ridunati,
Li sentimio velli’ pe’ lo stradone
Urlanno come ossessi scatenati;
Ma Righetto che stava inginocchione
Avanti a tutti, fece: – Attento! Attento!
E quanno che ce stiedero davanti,
Righetto ch’aspettava quer momento,
Buttò via la berretta, fece un sarto,
Strillò: – Viva l’Italia! e corse a vanti,
E noi dietro je dassimo l’assarto.

XVII
Ar vedecce sortì’ da la piazzetta
Come er foco che uscisse da un vurcano,
Preso de fronte, er reggimento sano
Se mette a fugge’ verso la casetta.
Noi, pe’ poteje fa’ la cavalletta,
S’arrampicamo sopra a un farso piano,
E mentre li vedemio da lontano
J’annamo sotto co’ la baionetta;
Ma mentre p’arrivalli c’era poco,
Sangue de Dio! Bum … bum … Sentirno un botto
E vedemo ‘na nuvola de foco.
Ce calò sopra a l’occhi come un velo …
L’assassini, scappanno giù de sotto,
Ci aveveno sparato a bruciapelo.

XVIII
Allora quelli che restarnio dritti
Se buttassimo giù su lo stradale,
E quanno se vedessimo sconfitti
Ritornassimo drento ner casale;
E siccome manca va er generale,
Fu detto: – Si ce dànno li diritti
De l’onori de guerra, stamo zitti;
Si no, morimo tutti; tanto è uguale.
Se fece notte: e mentre starnio drento
Ner casale aspettanno li sordati,
Ce parve de sentì’ com’un lamento.
Annamo su la porta tutti uniti,
S’affacciamo, orecchiamo pe’ li prati
– So’ li nostri, perdio l So’ li feriti. –

XIX
Allora se buttamo giù p’er prato,
Fra l’arberi, a l’oscuro, e annamo in traccia
De li feriti. E dopo avé’ cercato
Dove successe er fatto, fra l’erbaccia,
Sotto a ‘n’arbero secco, fu trovato
Righetto. Stava steso, co’ le braccia
Spalancate, cér petto insanguinato
Dar sangue che j’usciva da la faccia.
Mentre je darnio l’urtimo saluto
De li morti, fra l’arberi lontani
Sentimo un antro che strillava ajuto;
Seguimo er sono, e sotto d’un ulivo
Ce trovassimo steso Mantovani,
In un lago de sangue, ancora vivo.

XX
Ner casale fu messo su un divano:
E mentre je sfilamio la giberna,
C’insegnò sur un fianco co’ la mano
Come ci avesse ‘na ferita interna.
Allora j’accostamo ‘na lanterna
Sur fianco; lo scoprimo piano piano;
Sangue de Cristo! C’era ‘na caverna,
Che je c’entrava ‘n braccio sano sano.
Se mettessimo tutti inginocchiati.
Lui co’ le mano s’acchiappò la gola
E ce fissò co’ l’occhi spalancati:
Fece ‘no sforzo, s’arzò su dar letto
Come volesse di’ quarche parola,
E je cascò la testa sopra ar petto.

XXI
Allora quelli ch’ereno spirati
Li portassimo drento a la cucina,
E accanto, ne la camera vicina,
Ce mettessimo l’antri più aggravati.
E aspettanno che fosse la matina,
Cusì, a la mejo.: furno medicati;
Ma, senza un filo de ‘na medicina,
Era ‘na cosa da morì’ straziati.
Tanto ch’a uno p’infasciaje un osso
D’un braccio, ce toccò a strappà’ li tòcchi
De le camicie che portamio addosso.
Che strazio ch’è vedé’ soffrì’ la gente
Che te guarda cér care drento a l’occhi,
Staje davanti e nun poté’ fa’ gnente!

XXII
Un passo addietro. Dopo er tradimento
De la scarica, appena inteso er botto,
Righetto e Giovannlno in quer momento
Cascorno, sarv’ognuno, a bocca sotto.
Dice ch’allora, mentre er reggimento
Scappava giù p’er prato, sette o otto
Che li veddero senza sentimento
Tornorno addietro e je riannorno sotto.
E Giovannino in mezzo a quer macello,
Sporco de sangue, intanto che menaveno,
Cercò cor petto de coprì’ er fratello;
Ma dopo la difesa disperata,
Intanto che le truppe riscappaveno,
Cascorno giù fra l’erba insanguinata.

XXIII
E verso notte, dice, che Righetto
(Mentre ch’er sono de l’avemmaria
De Roma je sonava l’angonia),
Fece: – Povera mamma! Benedetto!
Poi je crebbe l’affanno drento ar petto
E fece: – Si m’avrai da portà’ via,
Voj’ esse’ seppellito a casa mia. –
Fece un lamento e cascò giù. Ninetto
Allora lo chiamò. Strillò più forte.
Nun rispose. Lo prese pe’ ‘na mano,
Era gelata. Er gelo de la morte
Je diede un bado, e tartajanno a stento,
Speranno cl’ esse’ inteso da lontano,
Strillò: – M’è morto Erìgo in ‘sto momento. –

XXIV
E da lontano se sentì un sussuro
D’antre voci. – M’è morto mi’ fratello!
Strillò Ninetto, e dopo fece: – lo puro
Sento che moro e vado a rivedello. –
E intanto ch’antre voci lì a l’oscuro
Je parlaveno senza de vedello,
Strillò: – Si camperete, ve scongiuro,
Dice, de facce seppelll’ a Groppello. –
E quanno che le forze j’amancorno,
Che lui se crese a l’urtimi momenti,
Strillò: – Viva l’Italia! – Intorno intorno
]’arisposer.o, ‘e fu l’urtimo strillo:
Poi s’intesero ancora antri lamenti,
E dopo … tutto ritornò tranquillo.

XXV
E noi che s’aspettamio ‘gni momento
La truppa, nun vedenno più nessuno,
A l’arba, de comun consentimento,
Fu deciso de sciojese. Quarcuno
Rimase ner casale chiuso drento
Co’ li feriti; e de nojantri, ognuno,
Dopo che s’approvò lo sciojimento,
Se sbandassimo tutti. Quarchiduno
Fu preso a Roma a piazza Barberina;
L’antri sperduti in braccio de la sorte
Agnedero a schizzà’ pe’ la Sabina;
Li più se riformorno in carovana,
Passorno fiume, presero le corte
Drento a li boschi, e agnedero a Mentana.

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