“I giorni della memoria” di Marina Vanoni

Autunno 1943.   Dopo l’8 settembre mio padre aveva voluto che mamma, mia sorella ed io lo raggiungessimo a Roma per “andare incontro agli alleati”, come si diceva allora, e, soprattutto, per affrontare tutti insieme gli ultimi mesi di guerra.  Avevamo trovato alloggio in via Guattani, in un appartamento di un villino il cui proprietario, Virgilio Gaida, era stato l’ultimo direttore del “Popolo d’Italia” legato ad un collega di lavoro di un nostro zio, per un complicato gioco di parentele.

Papà era stato condannato a morte in contumacia per aver firmato il manifesto di Bruno Buozzi che invitava gli italiani alla resistenza ed era ospitato da una famiglia in odore di antifascismo, Gaida infatti rischiava molto essendo già nel mirino dei fascisti per aver rifiutato di seguirli nell’ultima avventura di Salò ma, nello stesso tempo, sperava di guadagnare a guerra finita delle benemerenze presso i vincitori (noi allora non lo sapevamo, l’avremmo saputo molto tempo dopo e non da lui).  Così andavano le cose a Roma in quel lugubre autunno del 1943.

Primavera 1944.  Il 14 marzo un grappolo di bombe, non ancora “intelligenti”, cadde sul villino e su una fontanella all’angolo di via Nomentana dove una quarantina di persone erano in coda per l’acqua.  Fu una strage: morirono Gaida, la madre, i proprietari di un villino vicino e tutti quelli che si trovavano in prossimità della fontanella.  Noi, miracolosamente salvi, dovemmo cercare un altro alloggio.  Così papà finì nascosto in mezzo ai malati del Forlanini, che allora era un sanatorio, e noi fummo accolte in un pensionato di suore, che si trovava a via di Villa Ricotti.

Erano suore straordinariamente moderne per i tempi a cominciare dall’abbigliamento, niente veli e soggoli inamidati, ma in capo un semplice zucchetto, niente lunghe vesti fruscianti ma un abito di rustica stoffa grigia.  Erano suore polacche e, come tali, detestavano i tedeschi.  Così, a poco a poco avevano trasformato il loro pensionato, in origine destinato alle studentesse, in un rifugio di ricercati.  Di tante studentesse ne erano rimaste soltanto due che si preparavano a pronunciare i voti, come infatti fecero in quella primavera.  Al loro posto erano entrate delle signore che non uscivano mai dal pensionato e poco dalle loro stanze.  C’era un’attempata signorina francese, mademoiselle Lucie, che aveva vissuto a lungo in Egitto e ne era fuggita all’approssimarsi delle truppe dell’asse per cadere dalla padella nella brace, in quella Roma occupata dai tedeschi.  Con lei mia sorella ed io imparammo i primi elementi della lingua francese leggendo la Storia Sacra: “Moise dit alors” … il suo cognome rimase un mistero per tutti fino alla fine della guerra.  C’era anche un gruppo famigliare simile al nostro.  La ragazza, Marinella, aveva pochi anni più di noi, con lei la madre e una zia.

È questa zia che vorrei ricordare.  Naturalmente nel pensionato si viveva delle scarse razioni di quei pochi che potevano usare ancora le tessere annonarie: patate disidratate e poco altro.  Questa zia, una donna sui quaranta anni, alta, un fisico asciutto leggermente ossuto, i capelli grigi tagliati corti, un viso animato da un’espressione di vitale intelligenza che portava tuttavia chiaramente impressi i caratteri somatici del suo popolo perseguitato, un tipo dunque che non avrebbe potuto mai passare inosservato, tutte le mattine prendeva la sua bicicletta e si avviava lungo la via Nomentana.  Andava in cerca di cibo per l’intera comunità e spesso tornava con la sporta piena di verdura fresca: rape, broccoli, cavoli, tutto ciò che riusciva a racimolare nella desolata campagna attorno a Roma.  Ogni mattina la guardavamo uscire e non sapevamo se sarebbe tornata.  Quella signorina che in seguito insegnò Fisica alla facoltà di Ingegneria dell’Università Sapienza, si chiamava Nella Mortara, una delle prime donne ad interessarsi  di Fisica sperimentale. (Fig.1)

La dichiarazione dell’armistizio dell’8 settembre 1943, non gradito dai comandi tedeschi, segna l’inizio dell’occupazione nazifascista del nostro Paese. Sarà un’occupazione con conseguenze gravose, a volte tragiche, per la popolazione romana che dovrà affrontare privazioni, violenze e sofferenze in condizioni di vita assai difficili. Passano nove mesi interminabili prima che le truppe dell’esercito alleato, con l’aiuto dei partigiani della Resistenza, liberino Roma nel giugno del 1944.

4 giugno 1944: L’ultima giornata dell’occupazione.  I fatti che ricordo sono accaduti ottanta anni fa.  Ottanta anni sono quasi i tempi della storia, ma anche della leggenda che viene a costellare di piccoli episodi i grandi eventi della storia: narrerò dunque gli avvenimenti nell’incerta versione giunta fino a me nella speranza che qualche persona del quartiere, disponendo di notizie più precise, si faccia avanti per correggere o ampliare il mio racconto.

Si era al 3 giugno del 1944. I tedeschi si stavano ritirando; nella mattinata avevano fatto saltare l’antico monastero vicino a via Salaria delle Suore Francescane della Misericordia. L’edificio era stato sede di un nosocomio per soldati tedeschi, allestito al piano terra, fin dai primi giorni dell’occupazione. La storia dell’ospedale delle SS di via Poggio Moiano, è molto incompleta, . L’unica fonte che rimane è un diario, molto sintetico, di Madre Ignazia, la Superiora del convento,  tedesca anche lei, che personalmente bloccò un paio tentativi dell’Ordine Nero di salire ai piani superiori , dove erano nascoste molte famiglie ebree. (fig.2)

Tutto il quartiere aveva udito lo scoppio e visto l’alta colonna di fumo nero levarsi verso il cielo. Ora lasciavano Roma mentre da sud, dall’Appia gli alleati si preparavano ad entrare in città. Per tutta la giornata da viale  Regina Margherita, da via dei Monti Parioli, dall’Acqua Acetosa, da via Flaminia i Tedeschi, a volta montati sui camion, a volte appiedati, erano andati sfilando in direzione di ponte Milvio e della via Cassia.  Gli abitanti del Flaminio, chiusi in casa per timore di un ultimo colpo di coda degli occupanti, li avevano guardati passare.  E in effetti un ultimo atto di crudeltà stava per essere consumato perché, proprio su uno di quei camion che avevano visto passare, era stato fatto salire all’ultimo momento il sindacalista socialista Bruno Buozzi e altri dieci compagni prelevati in fretta e furia dal carcere, dove erano detenuti, per essere poi fucilati vicino alla Storta, appena fuori Roma.  Allora nessuno se ne accorse ma, quando pochi giorni dopo la liberazione, i loro corpi crivellati di colpi furono rinvenuti ai margini della strada, rimase sempre il dubbio se erano stati fatti scendere per recuperare spazio per altra refurtiva oppure perché la precisione teutonica imponeva di portare a termine quel compito nonostante l’evidente sconfitta.

Verso il crepuscolo, cessato il cannoneggiamento, un silenzio pieno di attesa era calato sulla città.  Ora per via Flaminia passavano gli ultimi drappelli di guastatori: giovani dall’aria sfinita impolverati e stanchi, sfilavano rasente i muri impugnando le armi per paura dei cecchini in un atteggiamento che non aveva più nulla di aggressivo, ma lasciava trasparire la consapevolezza di essere oramai dalla parte degli sconfitti.  Un esercito che si ritira suscita spesso compassione e le donne del Flaminio, guardandoli passare da dietro le loro persiane, provavano pena per quei giovani in marcia verso un incerto destino e più ancora per le loro madri che forse non li avrebbero più rivisti.  Un sentimento nel quale si stemperavano le paure, i rancori e l’odio dei mesi precedenti per lasciar posto ad un unico desiderio di quiete e di pace che, nei loro cuori invocavano anche per quello sparuto drappello.  Quand’ecco il rombo di una motocicletta rompe il silenzio un sidecar svolta in velocità, alla guida un ufficiale: grandi occhiali da motociclista, guanti alla moschettiera, sul seggiolino del passeggero un mucchio di pellicce: passa zigzagando in mezzo ai soldati appiedati e scompare in direzione del ponte lasciandosi dietro, assieme a una scia di polvere, il balenare di quelle pellicce che spegne di colpo ogni sentimento di compassione.

Intanto, acquattati fra le frasche sul greto del Tevere in prossimità di ponte Milvio, ci sono tre giovani, sono poco più che ragazzini e, nell’incoscienza della giovinezza, fin dal mattino sono scivolati fin là perché vogliono godersi lo spettacolo della ritirata. Hanno visto anzi, da sotto, hanno più udito che visto passare i camion e poi i soldati appiedati, sono pervasi dalla smania di agire e, non si sa come dal momento che non hanno armi, intendono difendere il ponte da eventuali sabotaggi. Quel ponte che per tutto il quartiere è quasi un simbolo perché, fino a pochi anni prima, segnava il passaggio fra città e campagna; fra lo spazio abitato e il luogo delle grandi ville suburbane, delle vigne, delle “fraschette”. (Fig.3)

Verso il tramonto, quando tutto sembra finito e loro un po’ delusi si apprestano a tornare a casa, il rombo del sidecar li mette in allarme: si spingono verso l’alto per vedere e anche loro rimangono colpiti dalla quantità di pellicce ammucchiate sul seggiolino. Un unico pensiero traversa le loro menti: “Ladri, ma questi sono ladri veri” si guardano “e se gli venisse in mente di rubare anche gli arredi del nostro Sant’Andrea?” in un attimo sono in cima alla ripa.

Sant’Andrea è l’oratorio che sta in mezzo ad un antico cimitero in capo al ponte. La domenica raccoglie per la messa i fedeli di là e di qua dal ponte, un luogo sacro per loro.  Devono assolutamente mettere in salvo quegli arredi.  Scavalcare il muro del cimitero è un gioco da ragazzi e loro sono per l’appunto ragazzi, che non si perdono d’animo neppure davanti al portale chiuso della cappella: il più giovane è stato chierichetto e sa bene dove sta nascosta la chiave.  In un battibaleno radunano in una sacca improvvisata il calice, la patena e il prezioso ostensorio. Poi tornano silenziosi al fiume.  Attorno tutto tace, c’è una barca di pescatori legata al tronco di un salice che si piega sulle acque.  La slegano e, lasciandosi scivolare lungo il filo della corrente, prendono a discendere il fiume incontro alla libertà felici e orgogliosi della loro impresa.

Nota: Caro lettore dei Racconti del Flaneur, questo racconto ci è stato inviato dalla socia AMUSE Paola Dorello che l’ha ricevuto dalla autrice, la sua cara amica Marina Vanoni.  Marina, ormai novantenne, ha abitato con la sua famiglia per lunghi anni nel nostro quartiere di cui conserva ancora molti ricordi e qualche rimpianto.  Marina e la sua famiglia, nel periodo dell’occupazione nazifascista (1943-1944), hanno dovuto superare notevoli difficoltà anche a causa dell’antifascismo del padre Ezio che sarà Ministro delle Finanze nella Repubblica Italiana, dopo la fine della guerra.  La sua breve testimonianza di quegli anni costituisce l’oggetto di questo racconto.

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