L’immagine di una città, di tutte le città, è il risultato della cultura di chi la abita. Il paesaggio urbano, come il paesaggio rurale rispecchia tecniche, tradizioni, abitudini, perfino superstizioni e stregonerie di chi vive in quei luoghi. Questo coacervo di abitudini si esprime in quello che si chiama “cultura popolare”. La cultura popolare ha creato, senza che nessuno li progettasse i borghi medievali dell’Italia Centrale, la cultura popolare ha generato, in barba ai piani regolatori gli orrori di alcune periferie romane o il paesaggio di certi tratti dei centri abitati delle coste calabresi dominate dalla ‘ndrangheta. È sempre la cultura popolare che genera un ambiente urbano di grande ordine come i lungolago di Lugano o di grande disordine come alcune conglomerazioni sorte accanto a certe borgate romane. Come è potuto succedere? Come accade tutto ciò? E soprattutto PERCHÉ accade?
Facciamo un esempio che è ormai da manuale. Parliamo di street art, una cosa inventata nell’antica Roma come ci testimoniano gli affreschi che decoravano le strade di Pompei e poi, nel medio evo, le immagini sacre poste agli angoli delle strade o nelle edicole lungo le vie battute dai pellegrini. Nessuno, dal medio evo fino al ‘900 ha distrutto o sfregiato quelle immagini di Santi e Madonne: erano, appunto:”sacre”. Non così per certe immagini poste fuori delle case dei “pagani” di Pompei, che la cultura bigotta del secolo scorso ha voluto occultare perché giudicate “oscene”. Ecco: l’oscenità va cancellata, occultata resa impossibile da vedere. Ma CHI decide cosa è osceno e soprattutto osceno PER CHI? Una volta a Roma c’era il “Magistrato delle strade” una figura di grande prestigio che soprintendeva sia all’urbanistica che al Decoro Urbano. Questo magistrato “decideva” l’immagine della città, decideva cosa era decoroso e cosa non lo era. Ed il decoro comprendeva sia gli edifici che le strade, i giardini e quello che oggi si chiama “arredo urbano”.
Oggi questa fondamentale funzione é stata scissa in molteplici funzioni.
Il grande pittore-writer Keith Haring, autore di un linguaggio visuale conosciuto e citato in tutto il mondo, è morto nel febbraio 1990. L’amministrazione comunale di Barcellona, l’Ayuntamiento, si accorge che la sua opera realizzata nell’89 in piazza Salvador Seguì, intitolata «Insieme possiamo fermare l’Aids» (una parete di circa 30 metri), sta per svanire. In accordo con la Keith Haring foundation decide di farne un calco. Nel 2014 l’opera viene riprodotta nella piazza vicina al Macba, il Museo di arte contemporanea di Barcellona, dove si può tuttora ammirare.
In quegli stessi giorni del 1992, qui a Roma l’allora giunta Carraro decide di ripulire molte facciate di edifici pubblici in vista dell’imminente visita di Gorbaciov a Roma per il centenario della fondazione del Psi. Tra mille critiche, sparisce anche il murale realizzato da Haring sulla base del Palazzo delle Esposizioni durante la storica mostra «Arte di frontiera», a lui dedicata nel 1984. Nel luglio 2000 incredibilmente sarebbe poi stata cancellata un’altra opera di Haring, il murale di 6 metri per 2 sulle pareti trasparenti del ponte sul Tevere della metro A. Due culture amministrative e sensibilità culturali opposte. Ora il neopresidente del palazzo delle Esposizioni, Marco Delogu, progetta coraggiosamente di ripristinare il murale di Haring con l’aiuto della Sovrintendenza comunale. Dopo lo sfregio del Pantheon, sarebbe un meraviglioso, significativo risarcimento.
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