Sono nata a via Alessandria 154 settanta anni fa. Lo dico con un po’ di incredulità, mi sembra impossibile che sia passato tanto tempo!
Quando dico che sono nata là vuol dire che sono nata a casa mia, come allora si usava. Mia madre si era diplomata pochi anni prima in ostetricia e si fece assistere da una sua collega di studi. Nacqui dopo ore di travaglio, con un grosso tumore da parto in testa, non dovevo essere molto carina.
Il mio palazzo era uno di quelli che si chiamano “di ringhiera”, costruito dai Piemontesi dopo la presa di Porta Pia, come tutto quel pezzo del nostro quartiere. “Di ringhiera” vuol dire che le porte e le finestre delle case affacciano quasi tutte su un ballatoio e così il cortile che ne occupa lo spazio centrale diventa il fulcro della vita di una piccola comunità, una specie di paesetto dove tutti sanno tutto della vita degli altri abitanti. Era abitato da famiglie non ricche e da alcune che lo erano un po’ e che facevano pesare la loro superiorità sugli altri.
La mia casa era tra le più piccole del palazzo e così quando crebbi e quando nacque mia sorella e altre due bambine nostre coetanee fu semplice diventare un gruppetto che cresceva insieme e che usava gli spazi comuni, i ballatoi, i pianerottoli, le scale, come uno spazio che permetteva di inventare giochi e passatempi semplici, come fare su e giù le scale alternando salti più o meno grandi. Ovviamente questo rese le scale anche teatro di grandi capitomboli, ma per fortuna nessuna si fece male più di tanto.
C’erano anche attività legate agli eventi dell’anno; la più bella era quella che ci permetteva a Carnevale di decorare il cortile con le stelle filanti. Avevamo a disposizione due piani e così iniziavamo prendendo una un capo e una l’altro della stella filante e correvamo una di qua e una di là fino a dove l’avremmo legata alla ringhiera. Alla fine del lavoro tutto lo spazio del cortile era coperto e quando soffiava anche un po’ di vento le stelle filanti davano uno spettacolo proprio bello che ci rendeva orgogliose del nostro lavoro. Ovviamente, se per caso pioveva, il lavoro veniva distrutto e ci toccava rifarlo, ma forse non ci dispiaceva, perché in realtà farlo era la cosa che ci dava più gusto.
I giochi più belli li facevamo dentro le case, spostandoci tutte insieme a seconda delle esigenze delle nostre madri. Anche se gli spazi erano angusti, la nostra fantasia li faceva diventare enormi: a volte eravamo signore che si lamentavano dei loro mariti, che fingevano di portare al parco i figli e di accudirli, a volte eravamo principesse e ci travestivamo con strani abiti vecchi che trovavamo nelle varie case e mettevamo scarpe vecchie con il tacco di parecchi numeri troppo grandi, cosa che non toglieva nulla al loro fascino. Era molto bello crescere insieme, avere sempre qualcuno con cui giocare nei momenti liberi dai doveri.
Il quartiere aveva anche lui il suo ruolo: Villa Paganini era lo spazio di gioco non sempre disponibile, dove andavamo spesso accompagnate dalle madri un po’ a turno e dove trovavamo ogni volta altri bambini del quartiere.
Prima di arrivare alla villa, passavamo di fianco alla nostra scuola, la gloriosa “XX Settembre 1870” dedicata ovviamente alla presa di Porta Pia, evento storico che domina tutta la zona.
Anche le nostre madri erano agevolate da quella particolare struttura del palazzo e dal fatto che crescendo insieme si potevano permettere di gestirci insieme. Non avevamo bisogno di baby sitter, un po’ i nonni con cui vivevamo, un po’ l’aiuto reciproco facevano sì che noi non fossimo mai sole.
Alla fine delle elementari però grazie al fatto che entrambi i miei genitori avevano trovato un lavoro fisso e dal momento che lo spazio era veramente poco ci trasferimmo a via Nomentana in una casa molto grande e in un palazzo dove non conoscevamo nessuno e dove non si incontravano spesso gli altri abitanti del palazzo. Per me e per mia sorella fu un lutto enorme, anche se di lì a poco lentamente il nostro vecchio palazzo si svuotò, arrivarono gli studenti fuori sede e altri abitanti che non stavano molto tempo a casa e il cortile che era pieno di voci quando noi eravamo piccole diventò molto silenzioso.
Ogni tanto torno a vederlo quel cortile, presa dalla nostalgia di un tempo così lontano e così diverso dal nostro presente che a raccontarlo sembra un po’ una favola. A volte mi sono divertita a mostrarlo ad altre persone più giovani e a cogliere nella loro espressione un po’ di incredulità.
Ma noi quattro che quella storia l’abbiamo vissuta, tante volte ci siamo dette che quell’infanzia insieme è stata una bella esperienza e che il nostro sodalizio ha contribuito a proteggerci da certi climi familiari normali per quegli anni di immediato dopo guerra caratterizzati dalla presenza di papà traumatizzati dalla guerra di cui erano reduci, dalle difficoltà economiche ,dalla convivenza di tre generazioni in spazi ristretti.
Angela Di Vanna
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