Campo delle anime perse

C’era una volta un semplice muro, poi inglobato dalle mura Aureliane, che fungeva da puntello al Mons Pincius, dimora sin dall’antichità di nobili famiglie romane.  Quel muro non ha avuto pace: con il tempo, cominciò a cedere e da allora è stato chiamato dai romani in diversi modi: murus ruptus, murus malo o muro torto.  Parallelamente la zona sottostante, oggi occupata da Villa Borghese e in particolare dalla grande strada che collega piazza Brasile (davanti a Porta Pinciana) a piazzale Flaminio (davanti a Porta del Popolo), nota a tutti col nome di Muro Torto, era nota col nome di murus malo.

Il nome murus malo deriva dal fatto che i pressi vi furono seppelliti, di notte, senza corteo e senza lapide né nome, coloro che la Roma papalina riteneva indegni di giacere in terra consacrata.

Ma chi erano questi pessimi soggetti?  Non gli gli ebrei, che avevano i loro cimiteri nei pressi di porta Portese prima e del Circo Massimo poi (dove oggi è il Roseto)o i protestanti, ai quali fu concessa un’area presso la Piramide Cestia (che oggi chiamiamo Cimitero Acattolico), ma i suicidi, i morti senza identità, oppure gli attori, le prostitute e i giustiziati che non si erano mai pentiti e che quindi erano morti nel peccato.  Insomma uomini e donne che i cattolici definivano “anime perdute”.

Seppellire questa gente al Muro Torto era il compito dei membri della Veneranda Arciconfraternita di S. Maria dell’Orazione e Morte che si riunivano nella chiesa omonima in via Giulia, 261 (Arco Farnese).  Nel loro statuto,  confermato nell’anno 1590, c’è scritto: ” Cap. I. Nell’anno del Signore 1538, alcuni devoti Christiani, vedendo che molti poveri, li quali o per la loro povertà , overo per la lontananza del luogo dove morivano, il più delle volte non erano sepolti in luogo sacro, overo restavano senza sepoltura e forse cibi di animali, mossi da zelo di carità  e pietà, instituirno in Roma una Compagnia sotto il titolo della Morte, la quale per particolare instituto facesse questa opera di misericordia tanto pia, e tanto grata alla Divina Maestà  di seppellire li poveri morti“.

Tra i “beneficiati” dai membri di tale confraternita, citiamo i carbonari Angelo Targhini e Leonida Montanari che rifiutarono ogni pentimento e che quindi, dopo l’esecuzione capitale del 1825 in piazza del Popolo, furono sepolti al Muro Torto.

Ma si poteva anche evitare tale brutta fine!  La cortigiana Fiammetta Michaelis, per esempio, amante tra i tanti anche di Cesare Borgia, condannata a morte, si pentì dei suoi peccati e si confessò.  Dopo l’esecuzione, fu seppellita in una chiesa (come molti altri condannati, ravvedutisi prima di salire sul patibolo).

I ricchi venivano solitamente sepolti nelle cappelle di famiglia, mentre i poveri affidavano le loro spoglie mortali alle confraternite.  Alla morte di un individuo, il parroco consultava i registri dello “Stato delle Anime” nei quali erano censiti gli abitanti della parrocchia, i bimbi battezzati, i ragazzi cresimati e gli adulti che avevano fatto confessione e comunione.  Nel registro c’erano anche annotazioni sula moralità dei parrocchiani: insomma una specie di anagrafe delle anime.  Nel caso di morte improvvisa, quindi senza confessione ed estrema unzione, se il defunto era stato vizioso, ladro, vagabondo o prostituta, era discrezione del parroco rifiutare funerale e sepoltura in suolo sacro.  Ma difficilmente questo accadeva per i nobili e per i personaggi insigni, come nel caso di Francesco Borromini, morto suicida ma sepolto nella chiesa di San Giovanni dei Fiorentini.  Viceversa, altra sorte toccò alle prostitute Annuccia Bianchini e Fillide Melandroni: per loro non ci fu remissione, cosi, nonostante il Caravaggio le avesse ritratte più volte come Madonne, Maddalene e Giuditte, finirono senza pietà ai piedi del Muro Torto, nel campo delle anime perse.

estratto da F. FALCONI, I fantasmi di Roma. La storia della città eterna attraverso i suoi misteri, le sue inquietanti presenze, le sue figure spettrali, Roma 2010

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