Storia degli obelischi di Villa Torlonia

I due obelischi di villa Torlonia nascono dal desiderio del principe Alessandro Torlonia di onorare i propri genitori e nel contempo arricchire il parco della sua grande Villa. E lui che scrive al vicere di Egitto chiedendogli due obelischi (autentici). Non avendo ricevuto risposta per tutto il 1838, il principe romano decide di farseli, utilizzando il granito rosa proveniente dalle cave di Baveno, sul lago Maggiore (all’epoca nel regno di Sardegna, oggi in provincia di Verbania) il più simile, tra i graniti disponibili a quello di Assuan.  

Estratti i due monoliti dalle cave di Monte Sempione a Baveno, il problema è quello di portarli a Roma: un lungo viaggio che iniziaia nella primavera del 1839 quando gli obelischi grezzi sono trasportati dalla cava al paese di Baveno, in riva al lago Maggiore, per poco meno di quattro chilometri tutti in discesa. In assenza di ampie strade e mezzi adeguati, sono fatti scivolare su un letto di assi e travi di legno, fino a due imbarcazioni a fondo piatto arenate sulla spiaggia. Da lì inizia la navigazione sul lago fino a Sesto Calende, poi sul Ticino, sul Naviglio grande, fino a Milano e infine sul naviglio della Martesana dove, terminata la prima tappa di cento chilometri, sono sbarcati e rifiniti nello studio dello scalpellino Antonio di Nicola Pirovano.

I manufatti sono imbarcati di nuovo, navigano sul Naviglio Pavese, ancora sul Ticino, sul Po, passando per Piacenza, Cremona, Guastalla, Pontelagoscuro e Cavanella Po. Utilizzando vari canali, l’Adige e il Brenta le chiatte giunge a Brondolo di Chioggia e sulla laguna arrivano infine a Venezia, dopo una navigazione di oltre 600 km dalla cava.

Il trasporto per mare è affidato al capitano della marina pontificia Alessandro Cialdi. Il capitano è di Civitavecchia e, nel porto della sua città, sceglie il “Fortunato”, un trabaccolo (imbarcazione a due alberi) che arriva a Venezia dopo 42 giorni di navigazione, il 15 agosto 1839, mentre le chiatte con gli obelischi erano giunte all’Arsenale della Serenissima solo cinque giorni prima.Il capitano Cialdi, all’epoca poco più che trentenne, oltre che un abile marinaio, è anche ingegnere navale, in grado di allestire la nave in modo da permettere una navigazione stabile e sicura, anche in presenza di un carico molto pesante. Fa quindi adattare il trabaccolo, sotto la direzione del mastro d’ascia civitavecchiese Francesco di Giovanni, rimuovendo la coperta, in modo da poter accogliere gli obelischi.

Nell’Arsenale iniziano le operazioni di trasferimento dalle chiatte al trabaccolo, durate circa tre ore, con cinque argani, duecentocinquanta operai e una fitta folla di veneziani curiosi. Il 5 settembre il Fortunato salpa da Venezia, costeggia la Dalmazia, è costretto a trovare riparo da una tempesta nel porto di Durazzo, oggi in Albania, poi torna sulle coste italiane e costeggiando la Puglia e la Calabria, passa lo stretto di Messina e il 2 ottobre giunse a Fiumicino. Alla foce grande il trabaccolo entra nel Tevere ed è trainato da bufali fino allo scalo fluviale di San Paolo. Lì il carico è oggetto di grande curiosità e perfino il papa Gregorio XVI viene e vuole salire a bordo per vedere gli obelischi.

Si pone a quel punto il problema di come portare gli obelischi fino alla villa. L’ipotesi del tragitto via terra è ardua per il rischio di incidenti, per il disagio alla città di Roma nel transito e per il rischio di non riuscire a passare attraverso ponti o archi incontrati nel tragitto, ma viene scartata dal principe Torlonia, che vuole assolutamente una consegna rapida, per la lentezza che un tale trasferimento richiede.

Torlonia accetta quindi la proposta di Cialdi di proseguire il trasporto fluviale, risalendo il Tevere fino alla confluenza dell’Aniene e poi su quest’ultimo fino all’ansa in località Sacco Pastore, la più vicina a Villa Torlonia, e comunque a valle di ponte Nomentano. La nave è trainata da bufali nelle zone di campagna, e da uomini all’interno della città. Il passaggio è dovunque accompagnato da grande curiosità popolare, facilitata dal fatto che i muraglioni lungo il fiume non erano stati ancora costruiti, e molti romani potevano vedere il passaggio del Fortunato solo affacciandosi alla finestra di casa.

Anche il successivo trasporto via terra di circa quattro chilometri costituisce un problema: le rive dell’Aniene sono erte e il percorso da coprire, prima nei campi e poi sulla via Nomentana, non è assolutamente adatto per un carico così pesante. Il problema è risolto decidendo di tirare in secca il trabaccolo, con gli obelischi a bordo, e dotarlo di numerosi assi con ruote sufficenti a reggere l’enorme peso del carico.  Il principe acquista l’imbarcazione che aveva noleggiato e la messa in secca della nave avviene il 26 dicembre 1839, alla presenza del Torlonia, che ha fatto allestire tende per i suoi illustri ospiti, di numerosi curiosi e degli immancabili venditori ambulanti con loro baracche allestite per l’occasione. Cinque argani e centotrenta uomini tirano in secca il Fortunato in 25 minuti, tra salve di cannoni e bande musicali e l’imbarcazione, con il suo prezioso carico è spinta su via Nomentana verso la Villa Torlonia. Otto giorni, di cui i primi tre spesi per uscire dalla zona di Sacco Pastore, sono necessari per percorrere quattro chilometri.

Il 9 gennaio 1840, dopo ben 2.880 chilometri di viaggio, a dio piacendo, la nave entra trionfalmente in villa Torlonia, alla presenza di ospiti illustri, tra i quali Maria Cristina di Borbone-Napoli vedova di Carlo Felice re di Sardegna, tra salve di cannoni, bande musicali e una folla festante.

Il comandante Cialdi è molto apprezzato per come ha svolto il suo compito e nello stesso anno è al comando di un “mistico” (nave più alberi e vari tipi di vele) che risale il Nilo per trasportare a Roma, colonne di alabastro donate a papa Pio VIII dal viceré d’Egitto, per la ricostruzione della basilica di San Paolo fuori le mura, distrutta nel 1823 da un incendio.

Giunti alla destinazione finale, si passa all’incisione dei geroglifici, sulla base dei testi redatti dal padre barnabita bolognese Luigi Ungarelli (1779-1845), egittologo esperto di geroglifici, che aveva collaborato con Jean François Champollion. Gli scalpellini hanno a disposizione dei calchi dei geroglifici degli obelischi di San Giovanni e di piazza del Popolo (entrambi originali egiziani) , per imitarne lo stile. Il lavoro si svolse sul trabaccolo “Fortunato” le cui fiancate erano state smontate. Gli obelischi, dopo che ciascun lato veniva scolpito, erano ruotati verso l’esterno, per esporre un nuovo lato da scolpire, finché, all’ultima rotazione, si trovarono fuori dalla nave.

Per consentire la comprensione dei testi, Alessandro Torlonia ne fa scolpire la traduzione in latino sulle basi in travertino degli obelischi; la traduzione era stata eseguita da monsignor Gabriele Laureani (1788-1850), custode generale dell’Accademia dell’Arcadia, e primo custode della biblioteca Vaticana.

Le date di innalzamento, 23 aprile e 28 maggio, non coincidono con quelle reali perché furono stimate senza poter prevedere eventuali contrattempi, che invece si verificarono e ritardarono la messa in posto degli obelischi.

Terminata all’inizio di aprile 1842 l’incisione dei geroglifici e sistemate le due lapidi sui piedistalli, è necessario innalzare gli obelischi. Furono esaminati e scartati diversi progetti, tra i quali quello proposto da Paolo Emilio Provinciali, maggiore del Genio, ispirato al metodo usato per l’obelisco di Luxor coricato in Egitto ed innalzato a Parigi in place de la Concorde. Alla fine si scelse il progetto del giovane cavalier Nicola Carnevali, architetto del teatro Metastasio in Campo Marzio.

Il primo obelisco, quello di Giovanni Raimondo, è innalzato nel pomeriggio del 4 giugno da centonovanta uomini, tra i quali sedici artiglieri che azionavano otto argani, al rullo dei tamburi e davanti a settemila spettatori. La Strada Pia, oggi via XX Settembre, e la via Nomentana erano per l’occasione ingorgate di pedoni e di carrozze tra cui quella del papa Gregorio XVI, che non aveva voluto mancare all’evento, insieme al re di Baviera Ludovico I e a tre cardinali, tra i quali il potente segretario di Stato Luigi Lambruschini. In circa mezz’ora l’obelisco è portato sulla verticale del piedistallo, per esservi imperniato, ma un violento acquazzone costringe le maestranze ad interrompere l’operazione e cercare riparo. Anche il papa dovette riparare nel Casino Nobile e il principe fu lieto di farglielo visitare. L’innalzamento riprese dopo il tramonto, alla luce delle fiaccole, e dopo aver sostituito le corde che erano inzuppate d’acqua. L’opera fu completata tra fuochi d’artificio, sparo di mortaretti, lancio di palloni aerostatici e musica da diverse bande. L’obelisco dedicato ad Anna Maria Torlonia fu innalzato sul suo piedistallo un mese dopo2.

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Biblioteca essenziale:

  • DIONIGI ORFEI Enrica (1840) Anna Maria Duchessa Torlonia. L’album, Giornale letterario e di Belle Arti, VII, 41, 12 dicembre 1840, 321-323.
  • GASPARONI Francesco (1842) Sugli obelischi Torlonia nella Villa Nomentana. Tipografia Salviucci, Roma.
  • MAZIO Paolo (1842) Il Quattro di Giugno. L’album, Giornale letterario e di Belle Arti, IX, 18, 2 luglio 1842, 137-143.
  • RAVIOLI Camillo (1842) Quarto ed ultimo rapporto della spedizione romana in Egitto. L’album, Giornale letterario e di Belle Arti, IX, 2, 12 marzo 1842, 9-16.

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