Giovanni Omiccioli (1901-1975), pittore romano, nasce in via Flaminia 71, allora l’ultimo palazzo prima della campagna.
Da ragazzo i suoi occhi spaziano dalle finestre della sua casa: in alto, i pini di Villa Strohl Fern dominano degli opifici (la Fabbrica del Ghiaccio, per esempio) e, più in là, una bidonville disperata, come ce n’erano tante intorno a Roma. Era il borghetto Flaminio uno dei tanti “borghetti” sorti come funghi intorno a Roma per ospitare gli immigrati venuti nella capitale per lavorare nell’unica industria che a Roma ha sempre funzionato: l’edilizia.
Ogni mattina, fin da ragazzo, Giovanni Omiccioli esce con i fratelli dietro al padre Abilio, per andare a lavorare come apprendista o “garzone” come si dice a Roma. Il padre è imballatore e ha bottega in via Margutta dove il ragazzo conosce e diventa amico di una serie di clienti squattrinati del padre: Scipione, Mario Mafai, Fortunato De Pero, Felice Carena, Armando Spadini, Filippo De Pisis, Ferruccio Ferrazzi. In quella stessa bottega, il giovane comincia a dipingere e, nel 1937, inaugura la prima personale alla Galleria Apollo di Roma.
Risalgono agli anni Quaranta i suoi «Orti», immagini del desolato borghetto situato sotto le pendici tufacee di Villa Strohl Fern, che l’autore numera in ordine progressivo (Vicolo sotto Villa Strol Fern). Queste opere ebbero successo anche all’estero; piacquero a Vittorio De Sica, a Valentinon Bompiani, a Cesare Zavattini e a molte altre personalità. Particolarmente personali sono i colori, anche se tipici della Scuola Romana. L’artista stesso scrive: “Lo splendido regno della bidonville / di cavernicole e misere baracche / tra un’accozzaglia di cose più buone a nulla / e di stentati e rari fiori su tetti di latta / erano per voi compagni della vostra sofferta vita / e tutto questo io li chiamai “orti”, chissà perché / mentre erano solo vostro miserabile esistere / e mio rattristato vedere” (G. C. Argan, 1948, in Omiccioli, Roma Palazzo Barberini, 1978, , p. 42).
Dopo la Liberazione esegue nel ’45, insieme a Mario Mafai, Guttuso e Afro, la prima testata dell’«Unità» e partecipa alle battaglie del Partito Comunista Italiano. Sono gli anni in cui Umberto Terracini tiene un discorso al Senato e invia copia del testo ad Omiccioli con questa dedica: «Al compagno e amico carissimo Omiccioli che disposando l’amore di libertà allo squisito senso d’arte da sempre sta nella comune buona battaglia per un mondo rinnovato».
Si sposta a Ponte Milvio, dove per cinque anni dipinge quella periferia ed i suoi personaggi. Nel ’49 trova nuove fonti d’ispirazione nella pianura vercellese e fra i barboni di Porta Ticinese a Milano. Scopre il Sud quando approda in Calabria tra i contadini, i pastori della Sila e i pescatori di Scilla. Dopo Ustica e le città costiere della Sicilia, l’incontro con il mesto e scarno litorale del Lazio, da Torvajanica a Passoscuro, e finalmente sul versante adriatico, l’incontro con l’originaria Marzocca (AN), terra nativa del padre.
L’artista si spegne a Roma nel 1975.
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