I Romani identificavano con il termine villa gli edifici destinati all’abitazione e alle attività agricole, generalmente collocati fuori delle mura cittadine, distinguendoli dalle case poste entro gli agglomerati urbani. Questa pagina delinea lo sviluppo di tale costruzione nei secoli.
La documentazione archeologica sulle villa romane è molto vasta e testimonia una grande varietà di tipi con diverse destinazioni d’uso.
Le prime descrizioni della “villa tipo” si trovano nel De agricultura, scritto nella prima metà del II secolo a.C. da Catone il Censore (234-149 a.C). Altre informazioni vengono fornite per l’età tardo-repubblicana da Varrone (116-27 a.C.), per la prima età imperiale da Vitruvio (37 a.C}, da Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) e da Columena (60 d.C.).
Tuttavia, anche se le fonti scritte non risalgono più indietro del II secolo a.C., abitazioni di campagna sono documentate già nei secoli precedenti, in Italia, così come in Grecia e in alcuni casi non erano semplici fattorie, ma residenze di famiglie aristocratiche con estese proprietà. Infatti, sin dai tempi più antichi il termine villa indicava sia la proprietà terriera (detta anche ager), sia l’abitazione vera e propria, utilizzata da tutti coloro che lavoravano nel fondo e dal proprietario stesso; tutto il complesso era definito anche praedium o fundus.
In altri casi, nelle fonti letterarie compare l’uso della parola horti per indicare ville situate fuori dalle mura della città e caratterizzate da appezzamenti di terreno coltivati che, secondo quanto dice Plinio (Naturalis Historiae, XIX, 50), dovevano essere di dimensioni maggiori rispetto alle parti edificate.
La villa tardo repubblicana, considerata un’evoluzione delle case rurali ellenistiche, note specialmente per l’Italia meridionale, presentava due parti distinte: la pars urbana, più o meno lussuosa, che ospitava i padroni, e la pars rustica, settore produttivo del complesso, destinato al vilicus (il fattore) e agli schiavi che attendevano ai lavori agricoli.
Nel corso dei secoli, poi, si riscontrano numerosi esempi di ville destinate al ritiro e all’evasione di uomini politici, abitualmente costretti a risiedere a Roma perché partecipi degli organi direttivi dello Stato. La villa, pertanto, diventa un luogo destinato alla comodità, all’isolamento e agli otia letterari ed artistici: stanze di soggiorno (diaetae), ornate di pitture che aprono le pareti in visioni paesaggistiche, si alternano a portici e a viali per passeggiare (xysti) inseriti in vasti giardini destinati alla meditazione.
Accanto all’area per il soggiorno piacevole vi era spesso un nucleo destinato allo sfruttamento del territorio (agricoltura, allevamento del bestiame, pescicoltura): la villa, quindi, si configura come un organo economicamente autosufficiente.
Per quanto la genesi della villa romana sia un argomento ancora molto discusso e non del tutto chiarito, i risultati degli studi più recenti sembrano almeno averne delineato gli sviluppi: la villa viene vista come il risultato di una evoluzione graduale dalla semplice casa rurale o fattoria ad una nuova forma architettonica più articolata (con la distinzione della pars rustica e della pars urbana), vicina al modello descritto da Catone, e legata allo sfruttamento del territorio.
Tratto da un saggio di Paola Chini e Antonella Gallitto.
Bibliografia essenziale: “Il grande Auditorium di Roma. Una porta sul futuro” TIELLE MEDIA Editore S.r.l., 2005
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