Acquacetosari

Fino a metà Novecento, la Fontana dell’Acqua Acetosa si trovava in aperta campagna ed era meta di gite e scampagnate “fuori porta”, durante le quali si beneficiava di una bella bevuta di quella che qualcuno giura che fosse “tra le migliori acque litiche della Penisola”. La fonte quindi è stata sempre meta di numerosi romani che “andavan ad empir fiaschi e recipienti della salubre acqua”.  

Ma c’è di più. Già nel 1663, Giovanni Battista Papi nel suo libro De Agricoltura, dopo aver magnificato la qualità di questa acqua («Io ho pur veduto stillar un’acqua alla ripa del Tebro, vicino a Ponte Molle, di sapor d’aceto e bevutane più volte, che levatone un certo odor di fango e di creta, diletta al palato, come farebbe un vino che fosse per inacetire”), racconta che l’acqua acetosa era venduta in città dagli “acquacetosari”, che la prelevavano alla sorgente con una botte montata su un carretto trainato da un somarello e la portavano in città per venderla a domicilio, come diremmo oggi, in fiaschi impagliati o piccole damigiane.

La fontana dell’Acqua Acetosa, quindi, oltre a costituire una specie di dispensario farmaceutico gratuito per la popolazione, ha alimentato per secoli una “industria”, povera ma caratteristica: quella degli acquacetosari,

Il lavoro era molto faticoso e l’acquacetosaro occupava uno dei gradini più bassi della scala commerciale esistente in Roma, come testimoniano le immagini e le descrizioni che ci sono giunte: “Un uomo lacero e mal vestito, a volte a piedi, a volte seduto sul carro con le gambe ciondoloni da un lato, conduce un tardigrado ciuco o un vecchio ronzino, attaccato ad un rozzo e sgangherato veicolo, sul quale il più delle volte trovasi riunita l’intera famiglia, nonché tutto il patrimonio, rappresentato dal carro, dal giumento, da alcune ceste contenenti i fiaschi, le quali sono a un tempo la cuccia dell’inseparabile cane di guardia.  Ciascuno dei componenti la famiglia, maschi e femmine, dal più grande al più piccolo, ha la sua parte di lavoro da compiere. Il padre conduce il ciuco e fa la sentinella al carro ad ogni fermata; in mancanza del marito, è la moglie che disimpegna tali funzioni, seduta sul carro con un lattante in braccio; mentre i figlioli più grandicelli hanno l’incarico di ripetere alternativamente la cantilena ‘freescaaa l’aaacquaaa-acetosaaa’ per fare réclame alla merce …”. Sotto il carretto, l’immancabile cane da guardia.

Nel libro “Vecchia Roma” di Piero Scarpa, possiamo trovare gustosi ricordi di inizio Novecento sulla fonte dell’Acqua Acetosa.

Egli ricorda che la fonte poteva essere raggiunta con due itinerari: il primo uscendo da Porta del Popolo e seguendo la via Flaminia e poi uno stradello a destra, l’altro uscendo da Porta Salaria e attraversando i Parioli per poi scendere verso il fiume. Giunti all’Acqua Acetosa i gitanti si soffermavano attorno alla fonte a consumare la merenda portata da casa. Ma trovare un posto tranquillo non era facile: i prati dell’Acqua Acetosa erano in quell’inizio di secolo invasi dai somari messi in libertà dagli acquacetosari intenti a riempire i fiaschetti.

L’Acqua Acetosa era anche talora la meta dell’annuale “passeggiata scolastica”. I ragazzi dovevano avere un berretto di tela grezza alla scozzese orlato con una fettuccia rossa che formava al finale due codini svolazzanti sulla nuca, così da sembrare il copricapo di un perfetto garzone di scuderia, mentre i più abbienti acquistavano al magazzino-sartoria Savonelli in via del Caravita, una divisa di tela con pantaloni lunghi, serrati in fondo dalle ghette, proprio come quella che allora portavano i nostri soldati reduci da Massaua, pochissimi anni prima occupata dalle truppe italiane.
“L’adunata si effettuava la mattina a piazza del Collegio Romano allo spuntar dell’alba. Prima venivano incolonnati quelli vestiti meglio, subito dopo la fanfara dell’lstituto della Sacra Famiglia. Seguivano quelli in abito borghese anch essi però col berretto da stallino, tascapane e borraccia, e solo quando il corteo si metteva in moto, si notava un codazzo di “castagnacciari”, ambulanti muniti del sacchetto con le palline della tombola, bibitari, bruscolinari, ecc
La sfilata avveniva al Corso ed era fiancheggiata dai genitori che, preoccupati della fatica cui erano sottoposti i loro figlioli, non cessavano di chieder notizie o di dare consigli”. E così conclude Scarpa la sua descrizione. “Siccome la passeggiata aveva anche lo scopo di far consumare ai baldi podisti una merenda all’aperto, appena il corteo giungeva all’Acqua Acetosa dopo il saluto alla militare con la mano sulla visiera (che non c’era) al signor “Direttore della ginnastica”, si scioglievano le file, si mangiava sull’erba e coloro che volevano dimostrarsi più resistenti giocavano a “buzzico” fintanto che uno squillo di tromba non indicava l’abbandono del luogo per ricomporre le squadre e tornare “stracchi morti” in città. All’indomani le assenze giustificate da somministrazioni di purganti, da interventi di medici e da febbri di strapazzo, raggiungevano un numero considerevole con gioia dei maestri e particolarmente dei custodi.

Testo tratto da “Viale dei Parioli, una passeggiata da piazza Ungheria all’Acqua Acetosa”, secondo libro della Collana Roma2pass.

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