Ipogeo di Via Livenza

L’ipogeo di via Livenza è appunto in via Livenza 4, a pochi metri da via Salaria, tra via Po e via Tevere.

Durante lo scavo dei pozzi di fondazione per la costruzione di abitazioni tra via Po e via Livenza, all’altezza del civico 4, sono state scoperte le pareti in opera vittata con ricorsi di laterizi di un edificio ipogeo a pianta a forma di circo (di circa m. 21 x 7 e orientato in direzione nord/ovest – sud/est, della seconda metà del IV secolo d.C..  Provvisoriamente fu chiamato l’Ipogeo di via Livenza ma da allora, non essendo stato possibile comprendere con precisione le funzioni di questo interessante manufatto, questo nome si è mantenuto.

Per accedervi è necessario entrare dal cancello di un condominio e scendere nove metri con delle scale che sembrano appartenere più a una centralina elettrica che a un antico monumento.  I gradini della penultima e dell’ultima rampa sono originali, segno che fin dall’antichità questo era un luogo sotterraneo.  Un bollo con monogramma costantiniano ne colloca la datazione al IV secolo d.C.  Anche le decorazioni si inseriscono bene in questo periodo, quando il passaggio dalla religione pagana a quella cristiana genera dei luoghi di culto “di transizione” dove convivono immagini cristiane e olimpiche.

La cosa che colpisce di più chi arriva a questo ipogeo è la sorpresa di trovarsi in un luogo sotterraneo che non ha nulla a che vedere con l’ambito funerario.

Davanti a noi vediamo una vasta aula con pavimento a lastre di marmo forma la parte centrale. In questa si aprono due porte che immettevano in ambienti posti sul lato orientale, ormai inaccessibili, mentre una terza porta è un elemento puramente decorativo: non portò mai a una stanza, dal momento che è ostruita dalla roccia. La parete settentrionale, rettilinea, è caratterizzata da tre archi, due laterali minori (di cui attualmente se ne conserva solo uno, mentre l’altro è tagliato dalle fondazioni del palazzo soprastante), e uno centrale di dimensioni maggiori.

In quest’ultimo si apre, non centrata rispetto all’asse del monumento, una nicchia di m. 1,80 di altezza e m. 1,14 di larghezza, che forse poteva accogliere una statua di dimensioni poco inferiori al vero. La decorazione dipinta della nicchia imita nella parte inferiore il marmo numidico, mentre nella lunetta è rappresentato un kantharos con funzione di fontana, a cui si abbeverano due colombe; altre due colombe si trovano alla base della fontana, in prossimità di elementi floreali.

Sotto il grande arco si apre su una vasca rettangolare di m. 2,90 x 1,70, molto profonda (m. 2,50). Le sue pareti sono rivestite di cocciopesto, mentre il fondo è formato da bipedali, di cui uno portava un bollo con il monogramma di Costantino. L’acqua raggiungeva nella vasca l’altezza di m. 1,40, dove si trovava il foro d’emissione, che la convogliava in una fognolo di muratura. Una grande apertura (m. 2,23 x 0,35), con due correnti nei quali scorreva una lastra di chiusura, permetteva invece lo svuotamento rapido del bacino. Si poteva raggiungere il suo fondo attraverso quattro gradini, alquanto scomodi (forse servivano per la manutenzione ma certo non per immergersi). I gradini sono costituiti da materiale di riutilizzo: due di essi erano infatti iscrizioni sepolcrali di militari, provenienti con buona probabilità dai sepolcri soprastanti. La vasca è separata dal resto dell’aula da una transenna marmorea che fu ritrovata in frammenti sparsi sul pavimento, restaurata e collocata nuovamente in posizione originaria nel 1993. Tale transenna era fissata entro una soglia di travertino e interrotta da pilastrini, di cui uno era il cippo sepolcrale del pretoriano Septimius Valerinus , databile tra il 260 e il 270 d.C.

Dall’elemento in terracotta fuoriusciva l’acqua, che veniva regolata attraverso un sistema a saracinesca presente sulla sinistra della vasca. La parete di fondo è completamente affrescata. La nicchia (che però è in una posizione decentrata rispetto alla vasca) è dipinta a finto marmo e ospita nella lunetta un vaso da cui sgorga dell’acqua bevuta da alcuni uccelli. A sinistra appare Diana cacciatrice tra due cervi in fuga, vestita di una tunica rossa senza maniche, fissata alle spalle da un fermaglio rotondo, di un manto giallo ocra e di stivali legati con lacci rossi; sul capo i riccioli sono ornati con un diadema a punte e una corona d’alloro. La dea ha il braccio destro alzato e il sinistro flesso in basso a reggere l’arco, il mantello rigonfio e il busto inclinato in avanti in atteggiamento di corsa, ma la posizione delle gambe non corrisponde a quella di una figura in movimento : esse sono infatti ambedue flesse, la sinistra in avanti e la destra in fuori, come di una persona che si prepari a scagliare le frecce. Sul lato opposto è dipinta una ninfa con i capelli raccolti dietro la nuca e un diadema sul capo, che porta sulle spalle una faretra e si appoggia con la sinistra ad un arco senza corda, mentre con la destra accarezza un cerbiatto.

In corrispondenza dei muri dell’arco centrale si trova una decorazione particolarmente ricca, formata da uno zoccolo con affreschi raffiguranti putti in atto di cacciare e pescare e da un mosaico con tessere in pasta vitrea che decora l’arco sono rimasti soltanto la parte inferiore e raffigura due figure: una è in ginocchio e beve l’acqua da una roccia, l’altra è in piedi. È stata riconosciuta in questi minimi dettagli la scena del miracolo della fonte in cui Pietro – Mosè disseta il centurione grazie a una fontana sgorgata dalla pietra.
Questo luogo è stato concepito senza dubbio per un’attività legata all’acqua. Le più svariate ipotesi sono state formulate per spiegare tanti dettagli curiosi, ma nessuna finora soddisfa pienamente gli archeologi. Non tutti i dettagli combaciano: se fosse un ninfeo, non sarebbe giustificata la profondità a cui si trova sottoterra; se fosse un fonte battesimale, non si capirebbe la presenza di Diana; se fosse una piscina, sarebbe troppo scomoda (e poi, sotter­ranea?).

Rimane il dubbio se questo sia un monumento pagano o cristiano, un edificio pagano di cui poi si appropriarono i cristiani o se addirittura appartenesse ad una setta religiosa, i Baptai, che adorava la dea tracia Cotys, spesso assimilata ad Artemide e praticava, durante le cerimonie sacre a carattere orgiastico, un bagno rituale in acqua fredda al fine di provocare lo shock dell’estasi. Per quanto riguarda la sua funzione, problema connesso con il precedente, è incerto se fosse un luogo per la celebrazione di riti misterici, un battistero cristiano o un ninfeo. La sua costruzione avvenne comunque nella seconda metà del IV secolo d. C., come si può dedurre dal riutilizzo del cippo di Septimius Valerinus, dalla presenza di un bollo con monogramma costantiniano e dallo stile delle pitture.

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L’enigma di Diana

Una dea misteriosa, a tratti solare e a tratti crudele. Artemide, che, che i Romani chiamarono Diana, aveva molti ruoli, anche in apparente contraddizione tra loro. Arciera infallibile e protettrice delle partorienti, vergine irascibile venerata dalle temibili Amazzoni e legata al ciclo lunare e alla fecondità. Soprattutto, strettamente connessa alla natura selvaggia. "Artemide pure, la...

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