La palazzina

Tra le diverse tipologie edilizie che oggi caratterizzano la maggior parte dei quartieri romani “fuori porta” è quello della “palazzina”. Ma questo risultato non è casuale. E’ infatti il risultato di una serie di interessi spesso non nobili ma anche di un lungo dibattito che ha animato l’ambiente culturale italiano, e romano in particolare, sullo “stile” che doveva caratterizzare i nuovi edifici della nuova grande capitale europea.   

Contemporaneamente alle numerosissime palazzine che prima degli anni Quaranta, seguendo le Norme del PRG 1931 costruiscono il Parioli e il Pinciano (oltre a quelle della Cooperativa del Ministero del Tesoro di via Gian Battista Benedetti, via Giovanni Antonelli, via Pietro Tacchini, etc. tutte costruite subito dopo il 1920 e con il carattere per lo più eclettico del barocchetto romano), sono da segnalare quelle di Busiri Vici, a via Panama nella zona vicina a Villa Borghese, quella all’angolo tra via Panama e via Lima, di Ugo Luccichenti, quelle di Pietro Aschieri e Giulio Gra a corso Trieste e, più tardi, quella di Ludovico Quaroni, su piazza Istria.

Dagli anni ’48-’50 agli anni ’60, le nuove tecnologie e le nuove teorie architettoniche, fondate sul razionalismo di Le Corbusier su questa particolare scatola spaziale, vengono sperimentate attentamente da architetti quali Vincenzo Monaco e Ugo Luccichenti, Luigi Moretti, Mario Ridolfi. E quest’ultimo, nella nota sopraelevazione in via Paisiello del Villino Alatri realizzato anni prima in stile eclettico da Vittorio Ballio Morpurgo (quasi “un urlo di rabbia” come scrive Portoghesi) denuncia una chiara avversione verso l’antico stile architettonico del barocchetto romano.

Edifici caratterizzanti il carattere dei cinque quartieri con quegli stilemi che a Roma si riscontrano nel tessuto urbano della città in costruzione, (nelle zone Prati, piazza Bologna, Testaccio, Aventino, ecc.) quasi a garantire una salvaguardia contro la disgregazione connessa alla tipologia a villino, permettendo un maggiore sfruttamento delle aree libere.

Secondo Paolo Portoghesi, la palazzina di Giuseppe Capponi, in lungotevere Arnaldo da Brescia, “segnala il passaggio tra la fase aulica e la storicità e quella razionalistica”: l’architetto infatti si ispira ai casini di caccia ma tiene conto delle ricerche coeve degli architetti espressionisti.

Nelle palazzine di Marcello Piacentini (vedi quella di viale Liegi 42 e quelle di piazza Verdi) la decorazione dei prospetti viene curata ancora a livello compositivo; e più tardi anche nella palazzina di Ridolfi, a via di San Valentino, come è evidente nel rivestimento in ceramica delle imbotte delle finestre: la composizione gioca non solo sul trattamento dei volumi, ma anche nella cura dei particolari.

La stessa nuova eleganza si ritrova nella Palazzina Furmanik di Mario De Renzi , a Lungotevere Flaminio, che gioca anche sul trattamento del disegno geometrico nelle fasce delle balconate, e più tardi in quella di Piccinato a Piazzale delle Muse, dove il volume della scatola spaziale scompare, annullato dall’elemento vetrato, quasi per catturare il bellissimo verde del panorama frontistante.

Balconi e loggiati, consequenziali alla nuova tecnologia costruttiva, si qualificano quali parametri con cui gli architetti giocano sull’aspetto percettivo del singolo manufatto; e non solo tramite le sporgenze chiaroscurali, ma anche attraverso il disegno dei parapetti, per la diversità dei vari componenti liberamente scelti: pannelli di vetro, prefabbricati, con elementi in ceramica, in grès, in mosaico, con fioriere dichiarate o nascoste ecc.

Con la nascita dell’Italia, architetti e ingegneri di fine Ottocento del nuovo Stato si misurano nella sfida culturale della ricerca di una “immagine” dell’edilizia che risulti moderna ma al contempo inconfondibilmente italiana.

Nello Stato Pontificio, infatti, gli architetti romani sono concentrati sui grandi interventi (chiese, piazze, palazzi nobiliari) lasciando alle capacità artigianali dei capomastri la scelta dello stile delle abitazioni del resto degli abitanti di Roma. Quando esplode il “boom” edilizio, in conseguenza del trasferimento da Firenze a Roma della Capitale del Regno, e si deve pianificare l’espansione di Roma, realizzare grandi edifici direzionali (i ministeri) ma soprattutto dare rapidamente un tetto alle migliaia di “buzzurri” immigrati dal nord e gli architetti si vogliono occupare anche di questo, studiando e mettendo a punto una tipologia nuova edilizia, inusuale per Roma, che era il fabbricato pluri-residenziale dignitoso.

Per dare un’idea della crescita della popolazione di Roma pensate che nel 1871, vennero censiti 6.662 buzzurri di cui 34 donne, nel censimento di dieci anni dopo erano 10.887 di cui 111 donne, a fine secolo erano quasi 25.000, circa il 10% della popolazione romana dell’epoca. Continuando la metafora del punto di vista del “Romano de Roma” (romano da almeno sette generazioni), la nuova invasione generata dall’Unità d’Italia aveva portato, anche i “cafoni” dal Sud e i “burini” dalle periferie dello Stato Pontificio. Come abbiamo spiegato nella passeggiata precedente tutti questi nuovi immigrati si stanziano nella Capitale, trovando facilmente lavoro ma più difficoltosamente casa. Nascono in quei decenni i quartieri all’Esquilino, al Macao e poi in Prati, là dove il cardinale/affarista Francesco Saverio de Merode aveva, con rara preveggenza, urbanizzato i terreni di villa Montalto e villa Altoviti.

Il quesito era duplice. La prima domanda è di tipo urbanistico e cioè “dove costruire”, su quali terreni e con che tipo di servizi, specialmente in termini di trasporti e infrastrutture. La seconda è di tipo architettonico e cioè “come costruire”, con quali caratteristiche estetiche. Che immagine si vuole dare a questa nuova città abitata da gente nuova derivante da uno straordinario “melting pot” che univa nord e sud, est e ovest? Che aspetto devono avere i nuovi ministeri e soprattutto le nuove abitazioni della nuova Capitale?

Sul “come costruire”, gli spunti non mancavano. Ciascuna delle grandi città/capitali europee, come Parigi, Londra e Napoli, ha una sua ben definita caratteristica urbanistica ed edilizia. Ma non solo. La rivoluzione industriale ha imposto nuovi stili anche a Vienna, a Berlino, per non parlare dei grattacieli di Chicago, sorti prima di quelli di New York. A Londra domina lo stile Vittoriano, un eclettismo che oscillava dal neogotico di Westminster, all’uso generalizzato del mattone dei desolati quartieri operai e dei minatori, mentre l’”alto di gamma” era rappresentato dagli edifici neoclassici di Mayfair e in particolare di Belgrave Square, realizzati nel ventennio 1820-40. Ma questo tipo di architettura non risponde certo alla cultura sabauda e non è nemmeno presa in considerazione. Le esperienze americane di Chicago, oltre che poco conosciute, mal si adattano all’economia asfittica del nuovo governo. L’architettura di derivazione vanvitelliana di Napoli con i suoi edifici di grandi dimensioni, infine, potrebbe essere un modello valido, ma il disprezzo per i Borboni impedisce che sia presa in considerazione.

La Parigi imperiale e roboante di Napoleone III, con i larghi boulevards di Hausman e le palazzate continue, era stata in parte imitata dalla Torino Sabauda che trasponendo la caratteristica scansione orizzontale di Haussmann (negozi al piano terreno, servizi al mezzanino e primo piano, quattro piani di residenze e due di sottotetto), aveva protetto i negozi e i servizi con gli ampi portici tradizionali della Pianura Padana. A Roma il modello Sabaudo è applicato pedissequamente a Piazza Vittorio, la più grande piazza di Roma nonché primo progetto di Gaetano Koch realizzato nel 1871, ma poi è verosimilmente l’influenza parigina a imporre lo stile Umbertino che in fondo è una rivisitazione casereccia, in chiave eclettica, dello stile neobarocco di Napoleone III dove le grandi costruzioni borghesi si vanno ad affiancare ai palazzi della nobiltà e dell’alta borghesia che riprendono gli schemi del barocco ante rivoluzione.

E’ questo lo stile che si impone nella realizzazione dei grandi edifici di Stato, dove l’imponenza della costruzione deve trasmettere un messaggio di forza della seppur giovane nazione europea. Ma in questa ricerca della maestosità, nella Roma tra il 1870 e il 1920, trionfa lo stile eclettico in cui si oscilla dal neo-medievale al neo-gotico, dal neo-rinascimentale al neo-barocco. Unica certezza è quella che lo stile neoclassico senza non è preso mai neppure in considerazione. Quando inizia l’urbanizzazione delle zone fuori le mura, i villini e gli edifici di maggiori dimensioni mostrano subito i contrasti culturali tra i vari progettisti, che con gli anni anziché attenuarsi si inaspriscono. Così allo stile Napoleonico Umbertino di Gaetano Koch si affianca il neobarocco e poi il liberty, sovrapponendosi e contraltandosi via via, fino all’avvento del Fascismo. Nell’urbanizzazione delle nuove zone fuori le Mura Aureliane, lo stile che prevale è quindi il “barocchetto Romano” sperimentato da Gustavo Giovannoni alla Garbatella. Nuclei consistenti di edifici in barocchetto sono presenti a Roma nel progetto Città Giardino Aniene, a piazza Bologna nella parte limitrofa a via Lorenzo il Magnifico, in Piazza Tuscolo e, per finire, in alcune palazzine realizzate in zona Monteverde Vecchio.

Pochi anni dopo l’avvento del barocchetto romano, tuttavia, alcuni degli stessi architetti che avevano lanciato questo stile lo tradiscono, abbracciando il più moderno Movimento Razionalista.

Il villino, inizialmente destinato ad accogliere una famiglia, aumenta la sua cubatura e diventa plurifamiliare, ma ha un problema serio: non il prezzo o il costo di manutenzione, peraltro elevati, ma la scoperta da parte degli costruttori e dei proprietari dei terreni che è possibile guadagnare di più su ogni lotto. La pressione di tali categorie su politici e amministratori pubblici è forte e fa nascere una nuova tipologia edilizia che inizialmente prevede una “sovrapposizione” di singole abitazioni di grande dimensioni, concepite come villini indipendenti nei quali il terrazzo sostituisce il giardino. Col Piano Regolatore del 1931, la “palazzina”: un edificio di quattro piani più l’attico, costruita a filo strada e senza giardino intorno. La nuova tipologia si diffonde a macchia d’olio in tutta la città e permette ai progettisti di svolgere “esercizi di stile” e sperimentare soluzioni spesso geniali che, se da un lato causano un certo disordine edilizio, dall’altro creano una ricchezza stilistica e di qualità architettonica senza pari. Tra il 1930 e il 1970 infatti, quasi tutti i grandi architetti operanti a Roma realizzeranno, spesso in forma anonima, delle palazzine ai Parioli, connotando in modo preciso il panorama urbano del quartiere. Non è difficile oggi ai Parioli, per esempio a via Giovanni Antonelli, vedere palazzine di otto piani costruite con regolare licenza edilizia perché, grazie alla forte pendenza del terreno, sul fronte posteriore presenta i regolamentari quattro piani.

Un grande studioso di Roma, Insolera, ci propone una chiave di lettura, sociologica più che urbanistica: “La palazzina è il tipico compromesso che salva apparentemente ogni desiderio e ogni valore, e sappiamo quanto conti, a Roma specialmente, questo “salvare le apparenze”. Gli inquilini, ridotti a una dozzina, possono credere di abitare in una casa individuale o quasi; i dodici metri d’aria che girano tutt’intorno lasciano l’illusione di stare un vilino o in un parco, e due ciuffi di verde al pianterreno, tra un garage e un negozio, completano la finzione; la casa di fronte alta 18 metri, anziché 30 lascia arrivare un po’ di sole. In questo avere di tutto un poco si finisce per abituarsi come se si avesse di tutto quel tanto che si desidererebbe”.

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