(PI400) Passeggiata lungo viale Parioli

Questa  Passeggiata urbana R2p è stata preparata da Andrea Ventura per OpenHouse Roma nel 2021

Dalla “Dolce Vita” alla “Movida”
Passeggiata lungo viale Parioli attraverso i suoi bar, i suoi ristoranti ed i suoi negozi (vecchi e nuovi). Questa passeggiata ripercorrerà la vita dei Parioli dagli anni della Guerra ai giorni nostri, attraverso ricordi, emozioni e nuovi sogni. 

Nell’ambito delle due giornate di Open House Roma 2021, l’associazione AMUSE ha deciso non di “aprire” ma di “svelare” una delle strade-simbolo del Secondo Municipio: viale dei Parioli.

Il Percorso parte da Piazza Ungheria ed arriva a Piazzale della Rimembranza (Villa Glori), è lungo circa 1,5 km ed è tutto in discesa (ma non è circolare e quindi arriva in un punto diverso dalla partenza. La durata è di circa 90 minuti.

Fermata 01 Piazza Ungheria angolo via Romania
Quando gli Alleati liberarono Roma, il 4 giugno 1944, posero il proprio Comando Militare Alleato al Foro Italico e di conseguenza le abitazioni dei Parioli si riempirono di ufficiali americani, inglesi, neozelandesi, australiani, sudafricani ecc, mentre le caserme e gli accampamenti (per esempio uno dei tanti era localizzato a Villa Glori) accolsero militari alleati. E’ di particolare importanza notare che le Caserme su Viale Romania ed il Comando Generale dei Carabinieri si erano praticamente svuotate dopo l’8 settembre del 1943 quando la parola d’ordine fu “Tutti a Casa!”. I militari alleati apparivano bellissimi agli occhi della popolazione romana stremata dalla guerra e dalla fame. Le Amlire, le scatolette delle K-Rations, il pane (bianchissimo!!) e soprattutto i tubi di sigarette e le tavolette di cioccolato, compravano qualsiasi cosa!

I Parioli si trovavano quindi in mezzo ad un territorio privilegiato con la Residenza dell’Ambasciatore Americano che era (ed è) a Villa Taverna dove dal 6 ottobre 1944 era tornato un diplomatico (Prima Kirk, poi Dunn e poi Bunker e Clara Luce fino al 1956, seguita da Zellerbach fino al 1960), da una parte, l’Ambasciata Americana con i Grandi Alberghi a Via Veneto, gli uffici del Comando Militare al Foro Italico. Nelle case dei Parioli subito dopo la guerra c’era dunque una miriade di ufficiali alleati, famiglie di vecchi e nuovi ricchi (specialmente quelli “baciati” dalla Borsa Nera!) e soprattutto una gran voglia di vivere e divertirsi. Cinecittà, il boom, l’esplosione del turismo e tutti gli ingredienti di una storia di successo si concentrarono tra Via Veneto e Viale Parioli.

Se i bar di Via Veneto (Caffè de Paris, Carpano, Doney, Open Gate e Harry’s Bar) erano il teatro di scorribande di attori ed attrici holliwoodiani e nostrani, regolarmente riprese dai paparazzi, e Piazza del Popolo tra Canova e Rosati vedeva la crescita dell’”Intellighentzia” italiana con Mario Pannunzio ed i giornalisti di punta e con gli artisti che sciamavano dall’Accademia su via Ripetta, Viale Parioli ed i bar della zona, vedevano un lato meno aggressivo e mondano ma molto più borghese: i “riti” del “Cappuccino e Cornetto”, dei “Caffè al volo”, degli aperitivi e, soprattutto del “canapé di pastarelle domenicali”.

Negli anni queste abitudini sono andate trasformandosi prima in tavolate al ristorante, poi nel boom delle pizzerie, per finire con gli “happy Hours” o con le colazioni di lavoro e, tristemente, anche con gli “apericena” ed infine, purtroppo, anche gli “sballi”.

Il contesto urbano nel quale questi Bar si andavano ad innestare alla fine della guerra era quello che si era venuto a formare tra il 1870 ed il 1940 con l’attuazione forsennata della crescita urbanistica voluta dalle nuove esigenze di una capitale da modernizzare ma sapientemente instradata da una curia ed una nobiltà nera e terriera che aveva portato alla distruzione prima delle ville all’interno delle Mura Aureliane (Villa Ludovisi, Villa Peretti, Horti Farnesiani, Villa Campana ecc.), poi al saccheggio delle ville e “vigne” fuori porta (Villa de Heritz, Villa Lancellotti, Villa Grazioli, Villa Sacchetti, Villa Balestra, ecc. ecc.). Ne erano nati, a nord, quartieri borghesi ed alto-borghesi incernierati su “luoghi” di “eccellenza” del regime fascista, che erano la residenza del “Duce” a villa Torlonia, la presenza della tenuta di caccia di Villa Savoia (Villa Ada), la presenza di nuove ville di nuovi Nobili arricchitisi con l’Unità d’Italia o arrivati a Roma, già ricchi ma sempre più in ascesa, al seguito dei “buzzurri” piemontesi (Villa Taverna, Villa Balestra, Villa Elia, Villa San Filippo) ed ancora la presenza di prestigiosi “Istituti” scolastici per (nuove)-ricche signorine o rampanti rampolli a metà tra borghesia e nobiltà (Adorazione, Assunzione, San Gabriele, Sant’Angela Merici, Santa Giuliana Falconieri, Ancelle del Sacro Cuore, Istituto Cabrini ecc.), il tutto rafforzato sia dalla presenza degli “Americani” che da quella di numerose Ambasciate (Inglese a Porta Pia fatta saltare dall’Haganà nel 1946, Belga a villa Caetani, Francese a Villa Bonaparte, indiana a via Denza, Polacca a Via Rubens, Thailandese a Via Nomentana ecc. ecc.) ed ancor più dalle Accademie che si erano andate a collocare sui vari lotti della Vigna Cartoni dopo l’Esposizione Universale del 1911. Il tutto con la presenza di palazzine di prestigio, villini di grande fascino, viali alberati e ville storiche.

Il disegno delle strade dei Parioli deriva in gran parte dai viottoli e tratturi che tagliavano le valle ed i colli tra le vigne. Anche Viale Parioli segue un percorso tortuoso che doveva servire a collegare il centro di Roma, anzi proprio Via Veneto e Porta Pinciana con quello che era il prima il “Campo Dux” e poi l’ippodromo di Villa Glori. Anzi lungo viale Parioli sul lato destro, correva una “pista” per cavalli che dal Galoppatoio di Villa Borghese portava a Villa Glori.

La “Piazza” Ungheria nasce praticamente “per caso” infatti lo slargo della ha origine dalla “Palazzina Lutetia” progettata da Giovanni Battista Milani nel 1928 che si pone d’angolo tra Viale Liegi e Via Panama con una variante di PRG presentata dall’Impresa costruttrice Provera & Carrassi, che prevede un arretramento dall’angolo a 90°. In tal modo, di fatto, viene condizionata la forma dell’”incrocio” e si forma la “Piazza”. Giovanni Battista Milani (1876 – 1940) è uno dei protagonisti dello sviluppo di Roma e del “Barocchetto Romano”. I progetti di Milani si caratterizzano per la qualità del loro ornato ed esprimono una vera e propria volontà d’arte dell’autore, che interpreta gli edifici come sculture a scala urbana, opere di artigianato impastate dalla mano dell’uomo. Milani interpretava la figura autorevole dell’architetto romano dell’inizio del Novecento, interprete di uno stile di sintesi compositiva, ibridato con un poderoso recupero a scala locale della proposta di Ugo Ojetti di una grande koinè barocca per rappresentare lo Stato unitario attraverso il linguaggio della tradizione.

Dal punto di vista architettonico la “Palazzina Lutetia” non ha molto di speciale con il classico piano rialzato con bugnato liscio, i tre piani caratterizzati da una balconata che si aggetta sul portone abbellito da due colonne di granito, marcapiani e finestre angolari ad arco incastonate nei bugnati angolari e attico con due terrazzi prospicienti la (futura) Piazza Ungheria. All’interno il vano scala ha una pianta a forma di amigdala con due “chiostrine” che servono le due ali dell’edificio.

Sull’altro lato di viale Liegi, all’angolo con Viale Rossini sorge un fabbricato, non una palazzina, di modesta architettura, anch’esso con l’angolo smussato, e di nessun valore architettonico, che, però ha ospitato ormai da più di 70 anni, uno dei “miti” della borghesia pariolina, il famoso Bar Caffè Hungaria, emulo del celebre caffè New York di Budapest, e che per anni è stato famoso per i suoi gustosissimi arancini. L’offerta gastronomica dell’Hungaria fece scalpore nel dopoguerra, in quanto era il primo “american bar” dei Parioli, con la possibilità di assaggiare, oltre agli arancini, anche i primi hamburgers oltre ai cocktails dello stesso livello di quello dei bar di via Veneto. Importante anche l’offerta della Pasticceria che negli anni del dopoguerra vedeva il rito della domenica delle famiglie borghesi, che, uscite dalla Messa a San Bellarmino, attraversavano la piazza e si rifornivano al bancone dell’Hungaria di diplomatici, bigné, crostate, mont blanc, profiterolles e torte di vario genere. Con l’aumentare del traffico sulla piazza, è stato stravolto completamente l’assetto di fruizione degli spazi.

Gli interni “storici” del Bar Hungaria sono stati in parte conservati e valorizzati dallo studio ARKjPAN di Junio Cellini e Paola Niolu che hanno fatto rivivere lo storico bar.

La Chiesa di San Roberto Bellarmino è stata realizzata su progetto di Clemente Busiri Vici , ed è a navata unica, con facciata a capanna contenuta tra due basse torri ottagonali coperte a tetto sopra la cella campanaria. La cortina di mattoni ricopre tutto l’edificio. L’architetto realizzerà dopo due anni i due villini gemelli che sorgono davanti alla Chiesa. All’interno di San Bellarmino la Via Crucis è di Corrado Vigni (1888-1956) ; le vetrate che illustrano la vita di San Roberto sono su cartoni di Alessandra Busiri Olsoufieff ; i mosaici alle pareti sono di Renato Tommasi (1884-1978); l’altare maggiore fu donato dal famoso tenore Beniamino Gigli. Alessandra Olsoufieff era una nobile russa di grande cultura, allevata tra Mosca e Firenze. La chiesa è considerata uno dei primi tentativi di semplificare nelle linee, nei volumi, nella decorazione e nell’uso dei materiali l’architettura religiosa romana (gli elementi compositivi sono di matrice geometrica e si basano sull’ottagono, legato al simbolismo teologico). La Chiesa è Dedicata al Cardinale Gesuita Roberto Bellarmino (1542-1621), direttore della biblioteca Vaticana e capo dell’inquisizione, passato alla storia per i suoi interventi nei processo contro Giordano Bruno e Galileo Galilei.

Dall’altra parte della piazza sorgono i due villini gemelli del conte Panzuti il primo (quello verso Viale Gioachino Rossini) è del 1920 opera dell’Ing. Ignazio Pediconi, con stucchi, cancello e recinzione in ferro battuto e pannello di mosaico.

L’ingresso del villino è orientato verso Roma. mentre sugli altri tre lati si estendeva il giardino della proprietà, ora occupati da piazza Ungheria dalla palazzina in via Rossini e dal villino “gemello”.

Il corpo di fabbrica al piano terra, che collega i due villini verso la piazza, è stato aggiunto in tempi successivi quando fu espropriato il giardino del villino a sinistra per realizzare piazza Ungheria. In quella occasione il conte riuscì ad avere anche la licenza per costruire, nella parte del suo giardino non espropriata, un secondo villino: quello a destra.

L’Ultimo lato, all’angolo tra Via Romania e viale Parioli è occupato da un condominio in “barocchetto Romano” con un cortile alberato rientrante che occupa il civico di Viale Parioli 2.

Da qui inizia Viale Parioli vero e proprio o, più correttamente, Viale “dei” Parioli.

Questo viale fa parte dell’asse tangenziale che dal Verano arriva al Tevere (viale Regina Margherita, viale Liegi, viale dei Parioli, viale Maresciallo Pilsudski, via Cesare Fracassini) e collega piazza Ungheria a piazzale del Parco della Rimembranza e, più in là si incrocia con Via Flaminia, viale Tiziano e poi il sistema dei Lungoteveri.

Il viale, alberato da maestosi platani, fu costruito a fine Ottocento come prosecuzione dell’asse umbertino viale Regina Margherita, viale Liegi su un percorso non riconducibile ad antichi tracciati. A circa metà del suo percorso forma piazza Santiago del Cile. La sua realizzazione, da piazza Ungheria all’Acqua Acetosa, ha permesso l’edificazione della valle tra le due alture dei Parioli, allora chiamate Monte San Filippo (viale Romania, piazzale delle Muse) e il Monticello (via Antonio Bertoloni, villa Elvezia). In realtà sia Monte San Filippo che il Monticello sono due protuberanze del grande colle del Quirinale.

I Monti Parioli sono quattro colline piuttosto basse, oltre il San Filippo ed il Monticello, comprendono il monte San Valentino ed il monte della Cacciarella occupato per intero dal Parco della Rimembranza di Villa Glori.

Questo viale fu intitolato “dei Parioli” dopo che questo nome fu utilizzato due volte. Prima, via dei Parioli era la strada che da porta Pinciana portava alle vigne dei Parioli (oggi via Giovanni Paisiello) in asse con il vicolo dell’Imperiolo (oggi via Antonio Bertoloni), che percorre l’antica Salaria Vetus. Poi, con l’inizio dell’urbanizzazione del quartiere Pinciano, prese il nome di viale dei Parioli.

L’urbanizzazione del Viale segue le indicazioni del PRG del ’31 che prevedeva la tipologia “a palazzina” che altro non era che la sovrapposizione su quattro piani di abitazioni di grande dimensione concepite inizialmente come “villini” indipendenti.

Le fruizioni di Viale Parioli sono complesse ed articolate, e verosimilmente, per queste ragioni, il traffico stradale è aumentato a dismisura:
1.  Uso Residenziale
2. Uso lavorativo (studi professionali ecc.)
3. Uso per il tempo libero (bar, ristoranti, caffetterie)
4. Uso per il commercio (supermercati, negozi, mercato, bancarelle).

Se l’uso Residenziale e Lavorativo si svolge prevalentemente all’interno degli edifici che costeggiano il viale, l’uso commerciale e di tempo libero si svolge con notevole impatto, sui due ampi marciapiedi che fiancheggiano la sede stradale, con conseguente espansione dei “dehors” tettoie, bancarelle chioschi, permanenti e non, che fanno di Viale Parioli la nuova Via Veneto della Dolce Vita Romana del XXI Secolo.

Il lato destro, scendendo è del Quartiere Parioli, e le strade sono dedicate ad irredentisti morti nella Grande Guerra. Mentre il lato sinistro è del Quartiere Pinciano e le strade sono dedicate a grandi scienziati italiani del passato.

Quindi le strade dei Parioli sono Via Nino Oxilia, via Gualtiero Castellini, Via Ruggero Fauro, Via Umberto Boccioni, Via Stuparich, via Scipio Slataper, Via Locchi

Le Strade del Pinciano sono via Antonio Stoppani, Via Lorenzo Magalotti, Via Lorenzo Respighi. Via Angelo Secchi, Via Niccolò Tartaglia, via Domenico Cassini, via Luigi Lagrange, via Giovanni Battista Brocchi, Via Francesco Denza, Via Bertoloni.

Il primo chiosco che si incontra, davanti al condominio di Viale Parioli 2 è il giornalaio, seguito a pochi metri di distanza dal bar della Casina Parioli che ha un piacevole “dehors” di fronte all’incrocio di Via Stoppani con Viale Parioli; nato come modesto chiosco bar in corrispondenza di una antica fermata di autobus, (anzi nel dopoguerra lì si fermavano le “camionette” che sostituivano il servizio pubblico), il chiosco si è ingrandito e consolidato ed ha anche allestito una tettoia riscaldata sul marciapiede.

Dall’altro lato di Viale Parioli all’angolo con via Stoppani, al civico n. 9 sorge un moderno complesso degli anni ’60 che occupa il lotto dove era un villino in stile ispanico moresco: Villa Villegas. Costruita all’angolo nel 1887 su progetto del giovane Ernesto Basile per il pittore Josè Villegas y Cordero (1844-1921), sollevò inizialmente un coro di lodi ed è citata anche nella Enciclopedia Spagnola come esempio di buona architettura iberica nel mondo. Ernesto Basile (1857-1932) è l’architetto autore di Villa Igea e Villa Florio nella sua Palermo e, a Roma, della nuova aula del Parlamento di Montecitorio. Josè Villegas y Cordero nasce a Siviglia nel 1848. Frequenta fin da giovanissimo l’atelier del pittore Josè Maria Romero, si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Siviglia, dove è allievo di Eduardo Cano. Nel 1867 si trasferisce a Madrid dove segue le lezioni di Federico de Madrazo e stringe amicizia con Eduardo Rosales.

A ventuno anni si trasferisce a Roma dove opera Mariano Fortuny, di cui ammira la pittura orientalista. A Roma trascorre trent’anni fino a quando non è nominato direttore dell’Accademia di Belle Arti spagnola. Diverse volte soggiorna a Venezia, compiuti a partire dal 1877, nei quali trasse esperienze fondamentali per lo sviluppo di un suo linguaggio pittorico più maturo. Abbandonato il suo giovanile attaccamento all’opera di Velasquez, che aveva lungamente copiato, e una pittura orientalista post-romantica così vicina a quella dell’amico Mariano Fortuny, accademico nelle composizioni bibliche o storiche, come nelle commissioni eseguite per il senato “L’incontro di Cortes e Montezuma” del 1878 e “La pace di Cambrai” del 1882. Il pittore approda all’impressionismo in dipinti di soggetto familiare, nei ritratti e nei paesaggi, riuscendo a raggiungere uno stile del tutto personale. A cinquanta anni torna a Madrid dove è nominato direttore del Prado nel 1904 e muore nel 1922. La celebrità per questo edificio arriva nel 1892 con il romanziere Paul Bourget (1852-1935) che ambienta in questa villa (però, chissà perché, trasferita all’Esquilino) una delle drammatiche scene di un suo romanzo “Cosmopolis”, nella quale la villa è la dimora della Contessa Steno.

Acquistata dai Tavazzi, a cavallo della seconda guerra mondiale fu la residenza del cardinale Massimo Massimi. Fu demolita alla morte del cardinale, appena dopo la guerra. Approfittando del fatto che non era ancora scattato il vincolo della sovrintendenza che dovrebbe tutelare tutte le costruzioni più antiche di cinquant’anni.

L’architetto del complesso di Viale Parioli 9 è lo studio Monaco e Luccichenti. Sul piano strada si apre un filiale della BNL, ma per anni lì vi è stata una concessionaria Peugeot del gruppo Leonori.

Di fronte a questo complesso, sorge un’elegante palazzina che attualmente ospita un elegante bar “La Palmerie” che occupa gli antichi uffici della sede romana della casa di produzione di Carlo Ponti.

Proseguendo sul lato destro incontriamo una serie di due palazzine ed un complesso con arco di ingresso ed ampio cortile interno con giardino in puro stile di “Barocchetto Romano”. In particolare la palazzina ai civici 4-6-8 non presenta particolari caratteristiche che ne facciano risaltare pregi architettonici, tranne che è “simile” ma non uguale a quella del civico n.2. Questa particolarità delle palazzine “doppie” ma non “gemelle” la incontreremo diverse volte su Viale Parioli.

La palazzina del civico 10 è stata costruita nel 1929 da Domenico Filippone (1903-1970). Le quattro nicchie con statue muliebri che rappresentano gli elementi naturali (aria, acqua, terra e fuoco) e simboleggiano l’attività dell’architetto: l’acqua e la terra rappresentano i materiali necessari per la costruzione e l’aria e il fuoco gli spazi e il focolare della casa. Una volta le quattro figure erano libere sul cornicione e sembravano librarsi nel cielo a guardare dall’alto la vita dei poveri mortali; successivamente, con la sopraelevazione, le statue sono stati inglobate in altrettante nicchie. Per capire l’effetto iniziale, basta andare nel quartiere Trieste a piazza Trento dove, sul cornicione di una palazzina dello stesso architetto, quattro statue si stagliano libere sullo sfondo del cielo. Fino agli anni Sessanta nel portone di questa palazzina, ai lati della rampa d’ingresso, c’erano due grandi sfingi di terracotta, ma essendo solo appoggiate sui gradoni sono state facilmente rubate.

Questi edifici presentano il classico schema della palazzina romana con un piano rialzato caratterizzato da un rivestimento in genere a bugnato,  liscio o rustico, che nel “barocchetto” è in intonaco che imita la pietra, sovrastato da tre piani e da un quarto piano “separato” dagli altri da un cornicione.

Il Complesso al n. 12-14 è invece caratterizzata da una balaustra continua che segue sia le sporgenze dei balconi che i parapetti delle finestre. Il complesso è formato da quattro palazzine che formano una corte asfaltata occupata da un parcheggio, mentre la quinta finale è occupata in modo non ortogonale da una palazzina il cui ingresso è su via Locchi.

Sul lato sinistro del Viale il panorama edilizio è più variegato con un villino con loggiato al civico 13. Questo villino è caratterizzato da un basamento senza aperture rivestito a bugnato “a diamanti” sormontato da un elegante loggiato sostenuto da colonne squadrate con capitelli corinzi e finestre del piano nobile con eleganti timpani in finto peperino. Il piano attico ha subito una netta soprelevazione che ha certamente stravolto quello che doveva essere un piano terrazzato con torretta. In questo villino al secondo piano intorno alla fine degli anni ’30 viveva un giovane Totò che spiava dalla fessura del suo uscio di casa gli studenti che si alternavano nelle stanze del piano nobile dove viveva uno dei pochi professori di inglese dell’epoca. La vera particolarità di questo villino è di rappresentare un momento di transizione tra l’eclettismo di fine ‘800 ed il “barocchetto romano” del primo ‘900. Infatti al piano terreno ed al primo piano le cornici della loggia e del primo piano “nobile” sono in peperino, mentre al secondo piano sono di intonaco che “avrebbe dovuto essere dipinto a “finto” Peperino. Questa tecnica era in realtà in uso anche durante il Barocco o il ‘700, e poi, con la progressiva esigenza di edifici a basto costo, questa tecnica si è andata diffondendo a causa dell’evidente economicità e basso costo dei materiali. Purtroppo le regole non abbastanza rigide in termini di rispetto del colore hanno permesso di ricoprire il finto marmo originale con i colori di facciata.

Al civico 15/19 sorge la prestigiosa villa De Angelis della nota famiglia di costruttori romani, lì abitava il famoso pilota di Formula 1 Elio De Angelis (1958-1986) e lì abitava anche il padre Giulio campione del mondo off-shore. La fortuna dei De Angelis pare nacque quando il nonno di Giulio, Giulio anche lui, che faceva il vetturino, incontrò una bellissima e ricchissima americana che lo sposò e finanziò i primi investimenti nell’edilizia romana. La palazzina è stata progettata dall’ingegner Carlo Cestelli Guidi (1906-1995) negli anni Sessanta. Si racconta che, all’inizio della costruzione, l’impresa scavò nel terreno con una trivella dei fori
in cui fu calata un’armatura metallica e poi colato del calcestruzzo per realizzare i pali di fondazione; finita la giornata tutti se ne andarono a casa, convinti che nella nottata il cemento si sarebbe consolidato e che i pali sarebbero stati pronti a sostenere la costruzione. Ma quando la mattina dopo le maestranze tornarono, uno dei fori che avrebbero dovuto contenere i pali di fondazione era vuoto. Ci vollero ore per scoprire che nella notte il calcestruzzo si era consolidato ma il suo peso aveva fatto cedere il piccolo spessore di terra tra il fondo del foro e una cavità sottostante, facendo sprofondare il manufatto: sotto questa area si estendono infatti i cunicoli delle Catacombe di Sant’Ermete il cui ingresso, con basilica ipogea, è qui dietro su via Antonio Bertoloni.

Fermata 02 Davanti al Bar Cigno alla Confluenza di Via Magalotti con Viale Parioli
Sempre sul lato sinistro, il fabbricato che sorge al civ. 25 angolo con via Magalotti rappresenta una forma di transizione tra il “Barocchetto Romano” ed il razionalismo. Potremmo forse chiamarlo “Razionalismo Fascista”, in quanto non è infrequente lungo Viale Parioli. Se infatti questa palazzina ancora presenta volumetrie e scansionature tipiche del barocchetto, tuttavia i materiali e le modanature ricordano De Renzi. Molto interessante è anche il loggiato che ne orna il lato verso Piazza Ungheria.

Ritornando a considerare il lato destro, al civico 16 troviamo un grande edificio realizzato nel 1927 su progetto di Tullio Passarelli (1896-1941) ed è stato per sessantanni la sede storica della scuola maschile privata dei Padri Monfortani, l’Istituto San Gabriele, uno dei punti focali dei quartieri Parioli e Pinciano. Fino al dopoguerra, sul fronte di viale dei Parioli, in corrispondenza dell’edifcio scolastico c’era solo un muro che conteneva un terrapieno sopraelevato sulla strada dove era il campo di calcio della scuola, circondato da una fila di tigli che a giugno, spandendo per la strada l’inconfondibile profumo dei loro fiori, annunciavano ai passanti l’arrivo dell’estate. Nel dopoguerra gli alberi sono stati abbattuti e il terrapieno sbancato. Al suo posto i “freres” del San Gabriele costruiscono la grande palestra e sul viale si aprono dei negozi, tutti con il numero civico 16.

Nel 1990 i frati si ritirano dall’insegnamento e la scuola, che inizialmente era un istituto religioso, diventa una società, anche se la proprietà continua ad essere nelle mani dei frère. La decisione di chiudere le attività arriva pochi anni dopo e nel 1998, dopo settant’anni di servizio, i Padri vendono la scuola al Gruppo Immobiliare Statuto del costruttore Giuseppe Statuto che, dopo aver convinto il Comune a trasferire il mercato di via Locchi alla fine di Viale Parioli presso Piazzale della Rimembranza, trasforma il complesso in una prestigiosa residenza. Il Gruppo Immobiliare Statuto, che lo ha acquistato per ca. 16 mld di lire (8 milioni €) e lo ha trasformato in un prestigioso complesso residenziale con un restyling di gran lusso.

Mentre la facciata dell’edificio rimane com’era, compresa la statua del Cristo benedicente, dalle classi e da le altre strutture scolastiche sono stati ricavati quarantacinque mini appartamenti, con aria condizionata, servizi in travertino, parquet, impianto wi-fi e così via. I servizi condominiali sono altrettanto lussuosi: una hall decorata con pitture veneziane, corridoi rivestiti di boiseries dove si affacciano le porte dei miniappartamenti, una piscina e un giardino con fontane. Al piano terreno, dove c’era la palestra della scuola, è realizzato un centro commerciale di circa duemila metri quadri e nei due piani sotterranei un grande parcheggio. Quando i lavori terminano, nel 2001, gli appartamenti sono già tutti venduti ancora in fase di cantiere per 5000 €/mq (del 1999) al metro quadro.

«L’ idea era quella di ristabilire una dimensione residenziale di alto livello in una delle zone dei Parioli più terziarizzate degli ultimi anni « spiega l’ architetto Zanetti, portavoce del gruppo Statuto « Alzare il tono di una strada che tra il mercato abusivo, il moltiplicarsi dei ristoranti e dei negozi ha perso molto delle sue caratteristiche di abitabilità, rispetto ad altre zone dello stesso quartiere». Mentre il San Gabriele, la scuola che dal 1927 al 98 è stata identità di un quartiere ospitando i figli di Ciano ed Edda Mussolini che abitavano a pochi metri si è trasferito alla Storta ed è diventato il St. George’s British International School Rome sulla via Cassia.

Fin dal 1949, sotto il San Gabriele, al 16A di Viale Parioli, proprio vicino l’ingresso della ex scuola, si trova una prestigiosa pasticceria “Il Cigno” della famiglia Scagnoli. Tutto nasce dal nome: “Il Cigno”, nome mitico dei grandi Pub inglesi ed in particolare da quello storico di Bayswater. E’ cosi? Non lo sappiamo; però il bar di Viale Parioli 16, nel 1949 si adorna di uno strepitoso fondale di ceramica realizzato da due famosi ceramisti e pittori : Achille Capizzano (nato a Rende nel 1907 e morto a Roma nel 1951 a soli 44 anni!) e Lorenzo Gigotti (1908 – 1995) i quali sono stati certamente coadiuvati dallo studio di Luigi Moretti e da quello stuolo, poco conosciuto e studiato, di artisti del “Centro d’Arte di Santa Prisca”, all’Aventino. In quel Centro d’Arte lavoravano Luigi Moretti (1906 – 1973), i fratelli Angelo (1901 – 1955) e Silvio (1893 -1932) Canevari, Franco Gentilini (1909 – 1981), Capizzano, Gigotti e molti altri. Da questo Centro d’Arte (legato all’ENAOLI – Ente Nazionale Assistenza Orfani Lavoratori Italiani –  ed alla scuola d’arte Pio IX retto dagli stessi “freres” del San Giuseppe De Merode, la scuola frequentata da Moretti) sono uscite decorazioni, ceramiche, sculture e progetti per la Casa delle Armi, per la casa della GIL a Trastevere, per la Palestra del Duce e per molte altre opere, progetti e decorazioni.

Il bar del Cigno alle spalle dei baristi, contiene, appunto, il grande pannello in ceramica, posto come quinta di separazione tra il bancone di servizio ed il locale dove si trovano le macchine del caffè e le scale che conducono al piano interrato dove si trova il laboratorio di pasticceria. Questo pannello è perciò diviso in due parti da una larga “finestra” dietro la quale si prepara il caffè. Sia la parte sinistra che la destra che le due trabeazioni sopra e sotto la “finestra” contengono una rappresentazione dei miti greci riconducibili alla figura del “Cigno”. A sinistra la storia poco o nulla conosciuta di Cicno, Fetonte e le Elidi ed a destra il celebre mito di Leda e del Cigno, il tutto reso nella vivacità smagliante della ceramica della manifattura Wolf, della quale non sappiamo nulla. La parte destra, più in vista, illustra la storia di Giove che, ossessionato dalle femmine, s’era acceso di desiderio per la procace Leda, moglie del re di Sparta, e per conquistarla si era mutato in un cigno meraviglioso. Leda rimase incinta e dopo qualche tempo partorì un uovo enorme: quando l’ uovo si schiuse saltarono fuori Castore e Polluce, ossia i Dioscuri, i gemelli divini che sarebbero diventati una costellazione dello zodiaco. Ebbene, nei sei o sette metri di ceramica questa storia c’è tutta, e c’è anche la storia di Cicno, le guance gonfie di Eolo e il carro di Fetonte, le ninfe dei boschi, i pavoni, le volpi, i mostri marini, le tante forme di un universo mitico che non si smetterebbe mai di ammirare. L’ opera è di Capizzano e Gigotti, due artisti degli anni Quaranta, e raccontata con molta grazia una favola per i bambini e per gli uomini di passaggio nel bar.

In realtà la composizione è assai complessa e presenta un sincretismo dei vari miti greci e romani che ruotano intorno alla figura del “Cigno”. Innanzi tutto l’opera va letta cominciando dal lato sinistro, che resta più nascosto, in quanto quella è la parte di mito meno conosciuta e si riferisce al nome Cigno, cioè al “personaggio” Cigno che nella mitologia è Κύκνος cioè Cicno, al quale corrispondono almeno sei storie differenti, che i due geniali ceramisti hanno riunificato dando loro un senso logico unico.

Allora: Cicno è figlio di Poseidone e di Calice figlia di Eolo, (che si vede in alto a destra nella parte di sinistra), fu parente e amico di Fetonte, (che si vede in alto a sinistra nella parte di sinistra dell’opera). Fetonte “lo splendente” (vedi Ovidio, Metamorfosi XI, 1 ss), figlio di Elios, dio del Sole, volle guidare il carro solare attorno alla Terra, ma, incapace di reggere la guida del carro nel cielo, incendiò cielo (facendo nascere la via Lattea) e terra (dando origine al deserto libico), e quindi, per fermarlo, Zeus lo fulminò ed il carro cadde nel fiume Eridano (l’attuale Po). La madre (Climene) e le sorelle di Fetonte (le Eliadi che si chiamavano Merope, Egle, Lampezia, Febe, Aetherie e Dioxippe) iniziarono a piangere senza sosta, tanto che Zeus tramutò le loro lacrime in ambra e loro stesse in pioppi (nell’opera si vedono due Eliadi sotto il carro di Fetonte e spostandosi verso destra si vedono gli alberi) che infatti si trovano sulle rive del Po. L’amico di Fetonte, Cicno, si disperò anche lui e fu trasformato in Cigno.

Il Cigno ha in realtà un significato simbolico molto importante in tutte le mitologie, da quella celtica a quella greco-romana a quella indiana. Il cigno rappresenta l’evoluzione spirituale, è legato all’acqua su cui nuota, all’aria nella quale vola, ed alla terra sulla quale si posa, ma rappresenta soprattutto il fuoco del sole dal quale trae il suo potere per padroneggiare gli altri tre elementi: rappresenta la comunicazione fra gli elementi, fra i diversi mondi, benefico e sacro possessore di poteri magici legati alla musica e al canto, uniti ai poteri terapeutici del sole e dell’acqua, esso rappresenta altresì la luce interiore e l’armonia dello spirito umano, la scintilla divina nell’uomo.

Davanti al Cigno si apre una strada, Via Lorenzo Magalotti (1637-1712), che è un “cul de sac” caratterizzato dalla palazzina al civico 12 che ne occupa lo sfondo con un Ordine Gigante imponente.

Realizzata intorno al 1930 dall’impresa dell’ingegner Amedeo Marcotulli, cognato dell’Arch. Florestano Di Fausto (1890 – 1965), autore di importantissime architetture per conto del Ministero degli Esteri in Libia, a Rodi ed in Albania dove aveva collaborato anche con Vittorio Ballio Morpurgo (1890 – 1966). Questo edificio dalla pianta molto ampia e articolata,  ha un corpo centrale austero con portale a strombo e ampie finestre per due piani. Il terzo piano funge da “finto attico” con cinque aperture sotto un grande cornicione. L’attico ha un timpano gigante affiancato da due imponenti comignoli che fanno venire in mente la facciata della Loggia delle benedizioni di San Giovanni in Laterano verso via Merulana, con i campanili affiancati. Nel lato destro, nascosto dalla prospettiva a cannocchiale della stretta via, la palazzina riprende la sua funzione abitativa con due corpi sporgenti, caratterizzati da volumi ciechi e ampi balconi.

Questa palazzina però può essere “letta” anche in un altro modo. Guardando lo schema compositivo della facciata, ben visibile da viale dei Parioli, gli esperti di architettura esoterica riconosceranno alcuni elementi caratteristici della massoneria: i due pilastri dell’ordine gigante, con i due ampi oculi circolari ciechi e accentuati dai comignoli dell’attico, richiamano le due colonne portanti del tempio massonico, Jachin e Boaz; il timpano triangolare, ripetuto a metà della facciata e sull’attico, richiama il triangolo massonico che ospita l’occhio di dio; tre sono le fasce che caratterizzano ogni piano come sono tre i primi gradi detti simbolici della massoneria (apprendista, compagno e maestro); cinque sono le finestre ad arco all’ultimo piano come sono cinque gli ordini architettonici classici (tuscanico, dorico, ionico, corinzio e composito) e i sensi che i framassoni devono sviluppare per compiere la propria missione nel mondo. Ma c’è di più: l’accesso alla porta del condominio è garantito da una rampa semicircolare di sette gradini e sette, per i massoni, sono le “arti liberali” del trivio (grammatica, retorica e dialettica) e del quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia e musica) che ciascun confratello deve sviluppare.

Questo palazzo, inoltre nasconde altre storie. Ad esempio, qui dentro è conservata la casa dell’avvocato Molle dove Ballio Morpugo realizzò i mobili e ordinò preziose decorazioni ai più raffinati artigiani dell’epoca. In questo appartamento, più volte pubblicato, “il tempo si è fermato”: tutto è rimasto come nell’anno 1931, quando il proprietario affidò a Vittorio Morpurgo l’intero arredo: sistemazione delle stanze, mobili, soprammobili, tendaggi, tappeti, pavimenti, luci.

Morpurgo faceva parte di quella generazione di architetti degli anni Trenta che lavoravano a stretto contatto con i decoratori, i vetrai, i tappezzieri nel clima di mutamento estetico e del gusto che, oscillando tra tradizione e modernità, era nel cuore dell’establishment italiano più avanzato che dall’Italia autarchica del Ventennio guardava golosamente alle altre capitali europee. L’avvocato Molle era un ligure, approdato a Roma da Oneglia agli inizi del secolo, uno studioso del diritto bancario che alla competenza nei codici alternava una curiosità viva e anticonformista per le novità. Nonché, dato essenziale, provvisto del dono di una straordinaria longevità: è morto a cento anni, alla metà degli anni Ottanta, lasciando la casa, realizzata e conservata con infinita cura, in eredità a una moglie più giovane di lui, scomparsa poi nel ’95 a novantasei anni.

Per amore dei genitori e per la fascinazione del luogo,  la figlia, unica erede della coppia, non solo non ha voluto disfarsi dell’appartamento e dei suoi preziosi arredi, ma ha cominciato dopo la morte della madre un faticoso e accuratissimo lavoro di restauro.  Ogni particolare della casa è stato progettato seguendo il gusto eclettico e inventivo del Déco italiano di quegli anni, che traghettava la sinuosità preziosa del Liberty e l’euforia del Futurismo verso le linee più sobrie, geometriche e razionali delle arti applicate dell’Europa continentale. Morpurgo ha messo al lavoro una schiera di artisti-artigiani tra i più rinomati del momento: nei due salotti ovali, uno dominato dai toni del verde, l’altro del rosa, ma anche nella sala da pranzo, nello studio, nelle camere da letto e nei disimpegni. Ovunque ci sono decorazioni parietali dell’artista decoratore Giulio Rosso (1897 – 1976) , collaboratore abituale dell’architetto Marcello Piacentini (1881 – 1960) , e dell’architetto e decoratore Venturino Ventura (1910 – ….), oggetti di artisti del vetro quali Napoleone Martinuzzi(1892 – 1977) e della Bottega di Paolo Venini (1895 – 1959), la Vetri Soffiati Muranesi Cappellin-Venini & C., i tendaggi della disegnatrice di stoffe Fides Stagni Testi (1904 – 2002), lumi originali in vetro di Pietro Chiesa (1892 – 1948). I mobili li ha progettati lo stesso architetto con la passione quasi alchemica dell’epoca per l’impasto dei materiali: marmi di differente natura, legni preziosi come il bois de rose, l’acero grigio e il castagno talvolta intrecciati a decorazioni in pasta di vetro di manifatture nordeuropee, poltrone in rafia e persino in pelle di serpente spesso sostenute dal tubolare metallico, freddo stigma della modernità trionfante e austera civetteria del momento, ma anche pannelli di rame e, nella stanza da pranzo, per terra un linoleum intarsiato che veniva suggerito all’alta borghesia come sostituto, e antidoto, ai preziosi e sorpassati tappeti di famiglia.

Ma più della perfezione dei suoi elementi è l’insieme di questa piccola Atlantide degli interni domestici, vero e proprio tesoro archeologico del passato prossimo, a sorprendere il visitatore, a raccontargli un’epoca e a impartirgli una lezione dal vivo sull’arte del conservare. Un’arte, nell’Italia e nella Roma degli ultimi cinquant’anni, accanitamente sottovalutata.

All’angolo di via Magalotti, al 27 di Viale Parioli, c’è un caratteristico palazzo con una serie di bovindoli agli angoli. Il progetto originario prevedeva una volumetria minore, mentre in fase di realizzazione l’edificio si è esteso anche su via Magalotti con una scansione regolare dei bovindoli. Si tratta di uno dei primi palazzi di Viale Parioli, la Palazzina Carbone, realizzata nel 1927 su progetto di Angelo Di Castro (1901 – 1989) che sorge ora al civico 27, ma che sul progetto originario risulta essere al civico n. 18.

Il palazzo ospita diversi esercizi commerciali “storici” di Viale Parioli tra i quali la gioielleria Cantarella e l’orologiaio Quagliarini.

A fianco del Cigno il corpo strada del piazzale dell’ex-San Gabriele è caratterizzato dalla presenza di diversi negozi, per anni vi è stata una banca, quando io ero bambino lì c’era un giocattolaio. Tuttavia uno dei negozi più affascinanti è la Libreria Manzoni di “Alfredo” Lisi ora gestita dalla figlia Stefania e dalla nipote, che in settantadue anni di vita ha cambiato due volte sede e connotazione, ma restando sempre in Viale Parioli sotto il San Gabriele. Agli albori, nell’anno ’48, la libreria era all’interno dell’Istituto San Gabriele, ed era uno “sportello” libreria, ed anche una piccola Casa Editrice la” A. Manzoni” appunto, nata nel 1943, per supplire le carenze del settore negli anni della guerra. Nel 1963 si è aperta la sede su Viale Parioli, e quindi la libreria si è trasferita nella sede attuale.

Il “Brutto Anatroccolo” al civico 18 è una tavola calda ristorante per le colazioni rapide dei molti impiegati degli uffici che oramai hanno sostituito diverse abitazioni. Il ristorante – Tavola Calda è stato aperto dalla famiglia Scagnoli, proprietari del Cigno, che infatti hanno chiamato la nuova impresa “Il Brutto Anatroccolo”.

Il Palazzo al civico 24 nel cui pian terreno è ospitato “Il Brutto Anatroccolo” presenta una facciata in tipico “barocchetto romano” con un piano nobile ingentilito da un balcone a balaustra e finestrature con cornici a timpano, mentre le attività commerciali sono coperte da un’ampia terrazza con balaustre che richiamano il balcone del Piano Nobile. Il villino è stato realizzato intorno al 1920 da Domenico Loponte, un imprenditore che aveva acquistato due lotti a cavallo di Viale Parioli. Successivamente nel giardino di questo
villino è stato costruito un corpo di fabbrica per ospitare i negozi aperti sulla strada, sovrastati da una terrazza con una balaustra che richiama quella del balcone del piano nobile.
Sulla strada, al 22, troviamo la Profumeria Ruberto, un altro negozio storico dei Parioli che da decenni rappresenta un riferimento certo per tutte le signore dei dintorni.

Di fronte, all’angolo di viale dei Parioli con via Lorenzo Respighi, sorge l’edificio più innovativo del viale: realizzato nel 1969 da Alvaro Ciaramaglia per uffici e servizi, testimonia il passaggio dall’uso residenziale a quello terziario della strada e dell’intero quartiere. L’architettura di questo complesso si articola su una struttura cubica all’interno del quale sono come “infilati” gli elementi che compongono ciascun ufficio in modo da renderli riconoscibili dall’esterno. Al piano terreno ci sono un supermarket e il ristorante pasticceria Sicilianedde che propone sfizi, dolci e delizie della gastronomia siciliana: ottimi gli arancini e i cannoli.

Qui, intorno al 1970, tra le proteste dei benpensanti, apre il primo ristorante cinese di Roma, gestito da un distinto ex maitre su navi da crociera, coadiuvato da una signora cinese originaria di Hong Kong: per la prima volta, molti pariolini assaggiano gli involtini primavera, il riso alla cantonese e il maiale in agrodolce.

Dove sorge l’edificio c’era un villino degli anni Venti di proprietà di Domenico Loponte, l’imprenditore lucano che aveva costruito anche il villino di fronte, al n. 18 del viale, e successivamente il palazzetto dietro, su via Lorenzo Respighi 13, dove sul portone si legge AEDIFICATA ANNO DOMINI MCMXXXVII D L (la sigla DL sta appunto per Domenico Loponte). Nel giardino di questo palazzetto nel 1957, al civico 7, è stata costruita, su progetto di Alberto Carpiceci (1916 – 2007) e impresa dell’ingner Marini, una palazzina che presenta una interessante soluzione curvilinea delle forme dei balconi.

Attraversata via Lorenzo Respighi, notiamo su viale dei Parioli due palazzine originariamente simili che negli anni hanno subito variazioni tali da cancellare le loro somiglianze; entrambe presentano, quasi all’attico della facciata prospiciente il viale, lo stesso elegante fregio a stucco che raffigura una fontana alla quale si abbeverano due cavalli stilizzati. Tale fregio, più visibile sulla palazzina di destra che non su quella di sinistra dove il colore rosso mattone della facciata rende impossibile distinguerlo, ricorda che
qui davanti correva la pista per i cavalli.

Entrambe le palazzine sono costruite sul terreno di un villino che arrivava a via Angelo Secchi, acquistato, intorno al 1930, da un avvocato siciliano per costruire la sua abitazione romana: la palazzina Intrigila ora Condominio “Due Palme”. L’edificio, in viale dei Parioli 41, sorge in cima a una scenografica scalinata, al centro ma in posizione arretrata rispetto alle due palazzine appena descritte. Le signore della zona ricordano che qui abitava una celebre astrologa e poetessa, Bebella: l’ultima erede del Giorgi, la famiglia dei proprietari e imprenditori che a fine Ottocento avevano voluto il grande viale su cui siamo. Si narra che l’avvocato Intrigila pretendesse di verificare personalmente tutti i dettagli della costruzione, facendo in questo modo lievitare i costi a tal punto da essere costretto a vendere i lotti del suo terreno ancora non costruiti. Pare che nelle sottostanti cantine ci sia un passaggio verso le catacombe di Sant’Ermete. La palazzina fu edificata al posto del preesistente villino che occupava l’intero lotto tra via Respighi e via Secchi ed arrivava fino a Viale Parioli. L’edificio sorge sopra una struttura di fondazione particolarmente solida voluta dal committente. Le spese esorbitanti per la costruzione della palazzina costrinsero il proprietario a vendere i lotti edificabili ricavati dal parco della sua villa ricavandone le due palazzine gemelle su Viale Parioli 39 e 43, che negli anni hanno subito variazioni che le rendono irriconoscibili, ed anche la palazzina al civico 45, angolo via Secchi.

Nella palazzina di sinistra al civico 39, durante la guerra, si trovava la sede della PAI, la Polizia dell’Africa Italiana, un corpo del Regno d’Italia operante nelle colonie dal 1936 e presente anche a Roma, dove acquista una pessima fama per le attività di rastrellamento dei renitenti alla leva dopo il capovolgimento di fronte del settembre 1943. Ora c’è la sede romana della Banca Popolare di Sondrio, che ha preso il posto della FILAS, la finanziaria di sviluppo del Lazio che ora si chiama Lazioinnova. Dopo la guerra inizialmente in questo edificio era ospitata una stazione dei Carabinieri.In quella di destra, al civico 43, c’è una storica agenzia immobiliare del barone Toscano della Zecca, attiva qui dal 1970.

Al n. 4 di via Lorenzo Respighi si apre l’accesso carrabile della palazzina Intrigila il cui ingresso principale si trova al 41 di Viale Parioli in cima ad una scenografica scalinata.

La palazzina gemella, al civico 43 permette di apprezzare, sulla facciata prospiciente Viale Parioli, un elegante fregio a stucco che raffigura due fontane alle quali si abbeverano quattro cavalli stilizzati. Tale fregio è presente anche sulla palazzina al civico 39, ma il colore rosso mattone ha reso impossibile distinguerne il disegno.

È invece certo che al secondo piano della Palazzina Intrigila, ha abitato Totò (prima di trasferirsi in viale Bruno Buozzi 64 nella palazzina detta Casa del Girasole) e qui ha sede da decenni una delle più importanti aziende italiane del mondo del cinema: l’agenzia di Moira Mazzantini, sorella della scrittrice Margaret, che segue importanti attori, registi, scenografi. Pierfrancesco Favino e Valerio Mastandrea, per esempio, lavorano con lei.

Il complesso delle tre palazzine dell’ex-Villino Intrigila è in asse con via Nino Oxilia. Procedendo verso Nord, in discesa al civico 36-38 di Viale Parioli si incontra il mitico negozio di gastronomia Gargani che offre prodotti di prima qualità di panetteria, pasta fresca, salumeria e delicatessen.

Sempre sul lotto dell’ex Villino Intrigila, all’angolo con via Angelo Secchi, sorge un altro condominio edificato negli anni ’50 forse su progetto dello studio Monaco e Luccichenti. La facciata di questo condominio al civico n. 45 di Viale Parioli, il piano terreno era una volta occupato da un’autorimessa con lavaggio auto ed è per questo che i due pini sono stati risparmiati, similmente a quanto si vede nell’ex autorimessa di Piazza Pitagora ora occupata da una boutique maschile.

Tra il Brutto Anatroccolo e Bulzoni ci sono una serie di negozi e negozietti in mezzo ai quali spicca la Profumeria Ruberto , Viale Parioli 22, che dagli anni ’50 rappresenta un riferimento certo per tutte le signore dei Parioli.

L’edificio che ospita Bulzoni e molti altri esercizi commerciali tra viale Parioli, Via Nino Oxilia e Via Locchi, è un villino della famiglia lucchese dei Grabau. Il Villino ha una pianta particolarmente articolata come si può apprezzare dal cortile del civico 28 dove si trova anche una statua in granito raffigurante, forse, una maga. Il villino aveva una balconata che è stata prima allargata per accogliere nel proprio ex giardino una serie di attività commerciali, poi alla fine degli anni ’60 il loggiato sopra Bulzoni fu finestrato per trasformarlo nel ristrorante “The Squire” un ristorante di qualità, del quale resta il portone d’ingresso su via Oxilia.

Questo edificio è stato realizzato nel 1930 da un geniale ingegnere lucchese, Renato Paoli, per la propria famiglia. Il progetto originario prevedeva facciate color bianco calce con una veranda a colonnine, terrazzi a vari livelli, tetti e tettoie in coppi di laterizio, e si ispirava alle case della Costiera Amalfitana e dell’isola di Capri, dove la famiglia Paoli trascorreva le vacanze estive. Il nome che aveva dato il suo creatore all’edificio era “L’Amalfitana” e in esso intendeva realizzare le sue teorie urbanistiche (poi pubblicate nella sua opera “Estetica e Ragione dell’Urbanistica” del 1934), secondo le quali gli edifici a Roma nelle aree fuori le mura avrebbero dovuto rifarsi non ai nuovi schemi del “villino” o della “palazzina” ma all’architettura spontanea dei casali della campagna romana e delle case della costa campana.

La moglie dell’ing Paoli, Maria Antonietta Pogliani (1886-1956), era una celebre scultrice degli anni Trenta allieva di Emile Bourdelle. È sua la scultura nell’ex giardino (oggi trasformato in un angusto cortile). Dopo la morte del proprietario, l’Amalfitana passa alla figlia, sposata con il conte Grabau (erede di una nobile famiglia lucchese) che abiterà qui per diversi decenni.

In seguito la proprietà è acquistata dal costruttore Piras per demolirla e costruire una palazzina. Il permesso però è negato, perché nel sottosuolo sono individuate cavità che proibiscono la costruzione di maggiori volumi, e l’acquirente fraziona la proprietà e apporta una serie di modifiche e ampliamenti che stravolgono il progetto originario ma gli consentono di massimizzare il profitto ottenuto dalla vendita dei negozi e degli appartamenti.

Emidio Bulzoni nel 1929 viene a Roma da Amatrice e, dopo un paio di lavori come cameriere, prende in affitto un locale, su questo viale di periferia, dove apre una mescita di vini, oli e aceti sfusi. I primi clienti sono i pochi passanti, e muratori e artigiani che lavorano alla costruzione dei palazzi intorno. A fine
giornata, si siedono ai tavoli, ordinano da bere e mangiano il cibo portato da casa. Con lo sviluppo del quartiere, l’attività commerciale si trasforma ed evolve. Gli abitanti del circondario comprano qui il vino dei Castelli che Emidio spilla direttamente dalle botti della sottostante cantina scavata nel tufo. Dopo la guerra Bulzoni compra i locali e commercializza oltre al vino sfuso un prodotto nuovo: “bottiglie di vino con l’etichetta” che qualificate aziende agricole italiane cominciano a produrre imitando i francesi. Il benessere che avanza incrementa la vendita di prodotti importati, soprattutto whisky, champagne e vini francesi e il figlio Sergio trasforma il negozio di vini e oli nell’Enoteca Bulzoni .

Al civico 44 di Viale Parioli vi è una tipica palazzina dei parioli con pian terreno occupato da negozi, ingresso dal cortile, primo piano ammezzato, tre piani superiori con balconi, primo piano con finestratura incorniciata da apertura cieca ad arco, e quinto piano separato dal resto dell’edificio da ampio cornicione.

Sul lato sinistro, in questo punto di viale Parioli confluisce via Angelo Secchi, all’angolo di questa strada si trova un’altra “coppia” di palazzine con ingresso comune al 47 di viale Parioli. Questa coppia è caratterizzata da angolo interno stondato accentuato da quattro balconate tonde ai piani dal secondo al quinto ed assenza di attico.

Inoltrandoci per pochi metri su via Secchi troviamo a sinistra, al civico 9, la palazzina costruita per Filippo Virgili nel 1929 dall’architetto razionalista Pietro Aschieri (1889-1952). In questa casa Benito Mussolini acquista un grande appartamento all’attico per la figlia Edda (1910-1995) che si trasferisce qui nel 1933 con il marito Galeazzo Ciano (1903-1944). La casa di Edda Mussolini e Galeazzo Ciano è arredata secondo il gusto dei padroni. Numerosi sono i tappeti portati dalla Cina dove Galeazzo era stato console generale. I quadri alle pareti sono pochi ma scelti con cura: Giovanni Fattori, Telemaco Signorini, Giovanni Boldini. Edda è una donna dal carattere forte e spregiudicato, fuma sigarette americane, beve gin e whisky, ha la passione per le carte. Qui organizza grandi ricevimenti con decine di invitati che finiscono spesso intorno ai tavoli da gioco. Intorno alla coppia si riuniscono molti esponenti della Roma-bene e, frequentando questa casa, alcuni di loro si convincono a spostarsi qui ai Parioli. Galeazzo e Edda si tradiscono vicendevolmente ma ne sono consapevoli e sembrano felici; sono gli anni in cui tutto sembra luminoso intorno a loro e la tragedia della fucilazione di Ciano, accusato dal suocero di tradimento, sembra davvero lontana.
Nel dopoguerra Edda continua ad abitare qui e molti la ricordano per il suo sguardo triste. A lei gli abitanti dei Parioli associano tre bellissime signore che frequentano il suo salotto e invecchiano con lei: Doris Duranti (1917-1995), diva del cinema italiano durante il ventennio fascista, compagna del gerarca toscano Alessandro Pavolini e amica di Galeazzo (livornese come lei), Miria di San Servolo (1923-1991), sorella minore di Claretta Petacci anche lei attrice negli anni prima della guerra, e infine Romilda Villani (1914-1991), madre di Sofia Loren.

Sempre su Via Angelo Secchi ai civici n. 5 e n. 7 ci sono due palazzine progettate da Filippo Sacripante, simili tra loro con balconi chiusi a bovindo ed un alto zoccolo di marmo verde scuro. Si tratta, anche in questo caso, di una coppia di edifici appartenenti ad un medesimo proprietario che ha incaricato un medesimo architetto il quale si è sbizzarrito a realizzare una sperimentazione di forme e soluzioni architettoniche.

Fermata 04 Angolo con Via Gualtiero Castellini

L’edificio dietro al giornalaio, al civico 50, ha una posizione arretrata rispetto alla strada e questo dimostra che è stato costruito diversi anni prima di quelli accanto, quando vigevano regolamenti edilizi più stringenti.

All’angolo tra viale Parioli e Via Gualtiero Castellini ai n. 52-54 si sviluppa una palazzina piuttosto articolata con fronte su Viale Parioli arretrata ed angolata e angolo curvilineo. In realtà, data la particolare configurazioneorografica, in questo punto sia via Castellini che viale Parioli raggiungono il crinale del Monte San Filippo ed inoltre il viale alberato curva per raggiungere piazza Pitagora e l’innesto con il lungo asse urbano di viale Liegi – Viale Regina Margherita, per cui la palazzina si trova ad avere la sua reale facciata in corrispondenza dell’angolo e, saggiamente, l’architetto, che potrebbe essere Busiri Vici, ha accentuato l’angolo con una ampia curvatura, destinando la facciata arretrata su viale Parioli, ad ampie balconate che servono i quattro piani sopra il “rez de chausée” che in realtà ospita un ampio “Car Porch” coperto proprio dai profondi balconi.

Anche questa palazzina è leggermente arretrata sul fronte stradale con una pianta piuttosto articolata. Il progettista  valorizza la posizione sulle due strade, realizzando due facciate completamente diverse tra di loro. Quella su viale Parioli è caratterizzata da balconate orientate verso piazza Ungheria ma arretrate e piegate in modo da aprirsi al sole di mezzogiorno e creare un ampio spazio per le auto al piano terra (il cosiddetto car porch). La facciata su via Castellini invece è a filo strada e presenta coppie di ampi balconi e finestre di grandi dimensioni. Nel contempo l’architetto elimina lo spigolo vivo all’angolo tra le due vie e, al suo posto, realizza un’ampia curva che raccorda i due lati della palazzina diventando essa stessa il punto centrale di un’unica facciata continua. Tale effetto è evidente osservando il palazzo risalendo il viale da piazza Santiago del Cile. Fino a pochi anni fa nel seminterrato della palazzina, con accesso in via Castellini 6, c’era Bartocci Sport il negozio del mitico Righetto , dal quale tutti i ragazzi dei Parioli hanno acquistato i primi jeans.

Il complesso residenziale che si trova ai civici 56, 58 e 60 presenta caratteristiche che lo rendono interessante. Il palazzo al civico n. 60 è indubbiamente il più caratteristico e di prestigio, si tratta di un fabbricato condominiale del 1929, probabilmente coevo degli attigui condomini ai n.58 e 56 ai quali è collegato da un caratteristico e molto gradevole portale ad arco impreziosito da due finte colonne pseudo-doriche e ingentilito da una maestosa lanterna in ferro battuto: si tratta del più classico “barocchetto Romano”. In particolare il palazzo al n. 60 è pieno di scritte che citano Cicerone nel “pro domo sua”. Sulla facciata principale verso sud, si legge: A.D. MCMXXIX ANNO VII – QUID EST SANCTIUS QUID OMNI RELIGIONE MVNITIUS QUAM DOMVS (VNIVS CVISQVE) CIVIVM? (Nell’anno del Signore 1929 – Anno 7° dell’Era Fascista – Che cosa vi è di più sacro e cosa di più religiosamente cautelato della casa di un qualsiasi cittadino?). E ancora: HIC SUNT ARAE, HIC SUNT FOCI (Qui sono gli altari, qui sono i focolari) da Cicerone in “De domo sua ad pontifices oratio” v. 109. Sul lato che guarda ad ovest verso l’Acqua Acetosa: NIHIL ERIT IIS DOMO SUA DVLCIVS (Niente sarà per loro più confortevole della propria casa) e in alto, LAETITIAQUE ARVIS SCIAS ADVENIA MINIME CEDO (E sappi o forestiero che per i momenti lieti preferisco questo luogo alle campagne) ed infine: SINT MIHI LYNPHARVM, MIHI MUNERA PINGVIS ARISTAE (Non mi manchi il dono delle acque e delle abbondanti messi).

Tutto l’edificio ed il cortile che lo raccorda ai due condomini contigui è ingentilito da stucchi che imitano antiche formelle in marmo raffiguranti scene domestiche, festoni, vasi ed anfore.

Il condominio attiguo, sull’angolo di Via Castellini al n.56, oltre ad essere stato deturpato da una soprelevazione incongrua negli anni del dopoguerra, è stato dipinto con un colore non omogeneo al resto del complesso, tuttavia tali sfasature non riescono a nascondere l’originaria grazia, il complesso presenta infatti un’alta zoccolatura in bugnato rustico di granito ed un gradevole bovindolo verso l’angolo su via Castellini.

Dall’altro lato di viale Parioli, al civico 49, si ammira una dei più begli esempi di architettura inizio ‘900 dei Parioli. Il villino di tre piani con elegante torrino loggiato, appartiene alle suore dell’Istituto Religioso della Purezza di Maria Santissima, una congregazione spagnola di obbedienza gesuita fondata nel 1809 a Palma de Maiorca. La congregazione, con sede in Spagna opera in Italia e nell’america latina nel campo dell’educazione. In realtà il villino opera come casa di accoglienza per ragazze di buona famiglia che studiano a Roma.

Il tratto di Viale Parioli tra l’istituto delle suore e Piazza Santiago del Cile è occupato da tre palazzine (civici 53, 55, 57) che danno un esempio del “Barocchetto Romano” della più pura borghesia pariolina.

Il caratteristico complesso di sei palazzine con cortina di mattoncini chiari di Viale Parioli 72-74 che si affacciano su un ampio spiazzo comune che fa da copertura al Teatro Parioli di Via Borsi 20.

Il Teatro Parioli Peppino De Filippo nasce nel lontano 1938 come sala cinematografica per diventare nel 1958 teatro di prosa dove si esibiscono artisti come Alighiero Noschese, Alberto Lionello, Antonella Steni ed Elio Pandolfi, tanto per citarne qualcuno oltre alla storica gestione di Smeriglio e Padovani. Nel 1977 un attentato fascista lo bruciò quasi completamente. Ma è nel 1986 che il Teatro Parioli trova la sua destinazione d’uso che più di altre lo renderà noto in tutt’Italia. Diviene la sede permanente per le riprese televisive del Maurizio Costanzo Show, fortunata trasmissione condotta da Maurizio Costanzo che dal 1988 al 2011 ne è anche stato direttore artistico e sul palco del Parioli si avvicenderanno alcuni grandi talenti della comicità italiana tra cui Vincenzo Salemme, I Fichi d’India e Giobbe Covatta. Durante una Maratona televisiva contro la mafia tenuta nel Teatro Parioli, qui Costanzo bruciò in diretta una maglietta con scritto “Mafia made in Italy”. Proprio questo suo impegno fu la causa, il 14 maggio 1993, di un attentato all’uscita dal teatro Parioli. Una Fiat Uno imbottita di novanta chilogrammi di tritolo esplose in via Ruggiero Fauro vicino al Teatro Parioli. A quell’epoca il Parioli fu trasformato in un vero e proprio set televisivo dove vengono rappresentati anche spettacoli teatrali. Ma di certo l’identità teatrale passa in secondo piano rispetto a quella televisiva. Esaurite le repliche televisive, nel 2011 il Teatro Parioli ha rischiato di trasformarsi ancora una volta, ma in un garage o in un supermercato. Sciagura sventata da Luigi De Filippo, che ne diviene direttore artistico dal giugno 2011, e da sua moglie Laura Tibaldi. Inoltre il teatro viene rinominato Teatro Parioli Peppino De Filippo in onore del padre di Luigi De Filippo.

Il complesso delle palazzine “Federici” (dal nome dell’Impresa che le ha realizzate intorno agli anni ’40) sono distribuite come due parentesi quadre contrapposte e non presentano caratteristiche architettoniche particolari; l’unico elemento degno di nota è l’angolo concavo della palazzina orientata verso Piazza Santiago del Cile.

Fermata 05 Piazza Santiago del Cile davanti alla Farmacia
Piazza Santiago del Cile è una piazza circolare con una aiuola centrale ora valorizzata grazie alla presenza di un parcheggio sotterraneo. Il primo palazzo scendendo da Viale Parioli al civico 67 sulla sinistra, ha una facciata concava che accompagna la curvatura della piazza ed è caratterizzata da una falsa serliana centrale.Questa palazzina è stata realizzata dalla Famiglia Luccarelli, proprietari della Boutique Benguela. Appena sulla piazza si trova la storica latteria Piselli che negli anni ’90 contendeva il primato di miglior gelataio dei parioli ai “Tre Frocetti” e alla gelateria di “Giovanni” di Via Eleonora Duse.

La palazzina che segue ha anche essa la facciata concava ma non presenta alcuna particolarità architettonica e si trova tra una stradina chiusa dedicata ad un vero genio dell’astronomia, Giovanni Cassini, lo scopritore degli anelli di Saturno, e Via Lagrange, che segue un antico tratturo che collegava la via Salaria Vetus ed il monte San Filippo e la Salaria.

Al Numero 7, all’angolo con Via Lagrange che sale sulla collina del Monticello, si trova un’altra palazzina con facciata concava ed austera senza balconi e con una severa zoccolatura a bugnato liscio, finestre incorniciate da tufo, quarto piano marcato da un’ampia fascia a finto tufo, cornicione aggettante e attico con due ampie terrazze.

In questa palazzina abitò il grande campione di scherma Nedo Nadi. Sulla facciata del civico 7, dietro lo storico fioraio della piazza, c’è una lapide scolorita dal tempo e dall’incuria, che ricorda le gesta di Nedo Nadi, una leggenda sportiva di inizio secolo, morto a soli 47 anni per un ictus, il 29 gennaio 1940, al quale è intitolata una via del Villaggio Olimpico che collega l’Auditorium al Palazzetto dello Sport. La lapide dice: “In questa casa visse e morì Nedo Nadi, vincitore di 4 Olimpiadi, insuperato campione nelle tre armi, atleta, soldato scrittore e maestro, esempio di grandezza civile e guerriera, tutta la sua vita fu offerta alla Patria”. Nadi fu un atleta eccezionale, precoce e versatile, unico in grado di vincere in tre discipline diverse (fioretto, spada e sciabola) 6 medaglie d’oro alle Olimpiadi di Stoccolma nel 1912 (dove esordì a 18 anni) e ad Anversa nel 1920. Prima di ritirarsi nel 1931, dimostrò ancora la sua bravura di schermitore di livello internazionale, vincendo nel 1930 il Campionato del Mondo per “professionisti”, cioè i Maestri di Scherma, nella spada. Divenuto tecnico della nazionale di scherma, vinse ancora nelle Olimpiadi del 1932 a Los Angeles (due ori, quattro argenti, due bronzi) e nel 1936 a Berlino (quattro ori, tre argenti, due bronzi). Dal 1935, fino alla morte, cinque anni dopo, fu anche presidente della Federazione Italiana Scherma. A lungo si potrebbe discutere su chi sia stato il più grande campione di scherma di tutti i tempi, ma senza nulla togliere a grandissimi atleti come Edoardo Mangiarotti o alle campionesse degli ultimi anni come Valentina Vezzali e Giovanna Trillini, va ricordato che Nadi fu l’unico schermidore a vincere in una sola edizione olimpica (Anversa 1920) 5 ori in tre diverse discipline. La prima guerra mondiale interruppe la sua carriera sportiva: arruolato come ufficiale di cavalleria combatté valorosamente nei quattro anni passati al fronte, ma rischiò anche la corte marziale per aver fraternizzato con un prigioniero austriaco nel quale aveva riconosciuto uno schermidore incontrato in pedana anni prima; fu tra i primi ad entrare nella Trento liberata, un’impresa coraggiosa grazie alla quale ottenne altre due decorazioni, questa volta al valor militare. Dopo la guerra Nadi riprese gli allenamenti ed i tornei e, vittoria su vittoria, riuscì a farsi nominare alfiere portabandiera della spedizione azzurra e capitano della squadra olimpica di scherma (Anversa 1920) che selezionò e guidò alla vittoria nei tre tornei a squadre; vinse anche quelli individuali nel fioretto e nella sciabola ma non poté partecipare al torneo individuale nella spada per un forte disturbo intestinale. Con queste cinque medaglie d’oro vinte nella stessa edizione delle Olimpiadi stabilì un primato uguagliato solo nel 1924, a Parigi, dal corridore finlandese Nurmi e battuto solo nel 1972, a Monaco, dal nuotatore statunitense Spitz, che ne vinse sette. Raccontano che il sovrano belga durante la terza premiazione avesse detto: «Siete ancora qui, Monsieur Nadi?» ricevendo la seguente risposta. «Con il Vostro permesso, conto di tornare ancora davanti a Vostra Maestà» ed infatti prima che i Giochi Olimpici terminassero ad Alberto I di Sassonia-Coburgo sarebbe toccato premiare altre due volte l’atleta azzurro, protagonista assoluto di quell’Olimpiade insieme al fratello Aldo, anche lui vincitore di tre ori a squadre e sconfitto in finale nella sciabola individuale dal fratello maggiore. I fratelli Nadi erano stati avviati alla scherma dal padre, il maestro d’armi Giuseppe Nadi, fondatore dello storico Circolo Scherma Fides di Livorno, che li allenò con durezza al pari degli altri allievi della propria scuola. Estremamente severo, Giuseppe alimentava di proposito una forte rivalità tra i due figli, destinata – nel tempo – a segnarne i rapporti. Sotto la guida paterna i fratelli si dedicarono al fioretto e alla sciabola ma non alla spada, che Giuseppe considerava un’arma indisciplinata (il bersaglio valido comprende tutto il corpo), diversamente dal fioretto (limitato al busto) e dalla sciabola (busto, braccia e testa). I due fratelli impararono pertanto a tirare di spada da soli, di nascosto dal padre. Dopo l’impresa di Anversa, Nedo accettò di trasferirsi a Buenos Aires per sostituire il concittadino Eugenio Pini nella direzione della sezione scherma dello Jockey Club, il più famoso del Sudamerica. Per tre anni fu lo schermidore professionista più ricercato e pagato del mondo e iniziò l’attività di giornalista sportivo con il quotidiano argentino La Naçion. Tornò in Italia, gravemente ammalato, nel dicembre 1923, si stabilì a Livorno e, dopo una lunga convalescenza, sposò la genovese Roma Ferralasco, giovane insegnante di educazione fisica conosciuta ad Anversa (autrice di una biografia del marito pubblicata nel 1969). Riprese ad allenarsi nelle tre armi e, a metà del 1924, ricominciò a scrivere, collaborando ai quotidiani La Stampa di Torino e a Il Litorale di Bologna. Al suo ritorno rifiutò di iscriversi al Partito Nazionale Fascista e, in ragione di ciò, subì ripetute minacce dagli squadristi livornesi almeno sino all’intervento di Augusto Turati, segretario del partito e schermidore abbastanza noto. Nel 1928 incontrò a Roma Benito Mussolini, ma declinò l’invito a trasferirsi nella capitale per aprire una nuova sala d’armi. Intanto, dal 1926 aveva ripreso l’attività agonistica professionistica arrivando a vincere in cinque anni 72 tornei, fra i quali il campionato italiano per professionisti nelle tre armi, il torneo mondiale di spada da terreno organizzato a Nizza nel 1928 e nel 1929 e, nel 1930, il campionato mondiale per spada organizzato ad Anversa dalla Federazione internazionale (Fie). Poi, logorato nel fisico, chiuse la propria carriera il 4 febbraio 1931 al teatro Lirico di Milano battendo alla sciabola il campione europeo in carica, l’ungherese György Piller-Jekelfalssy: accettò, quindi, di allenare la Nazionale italiana, ruolo voluto da Benito Mussolini in persona, nonostante anni prima avesse dovuto inghiottire dal livornese un diniego gentile ma fermo, alla sua proposta di diventare un simbolo dello stato fascista, un rifiuto in linea con la sua volontà di restare sempre un uomo libero, senza condizionamenti. Con Nadi commissario tecnico delle squadre nazionali di scherma, già nel 1932, alle Olimpiadi di Los Angeles, la squadra olimpica ottenne un risultato lusinghiero, con otto medaglie. Nel 1935, divenne presidente della Federazione Italiana Scherma, senza tuttavia trascurare l’attività di tecnico: i successi degli schermidori italiani furono confermati alle Olimpiadi di Berlino del 1936 (nove medaglie, quattro delle quali d’oro) e poi ai campionati mondiali di Parigi (1937) e di Piestany (1938). Nel 1940, anno della sua precoce morte (era nato a Livorno nel 1893), non si poteva aggiungere sul marmo di una targa che Nedo Nadi era stato un uomo così amante della libertà e così insofferente del fascismo, da rischiare, nonostante la popolarità, le botte di una squadraccia. Forse fu proprio dalle finestre di questa casa di periferia (a quei tempi piazza Santiago del Cile, alla metà esatta di viale Parioli, era quasi aperta campagna) che il grande campione si rifiutò di esporre una bandiera, per festeggiare un fallito attentato al Duce, più per istinto e temperamento, viene da pensare, che per ideologia politica. All’elegantissimo Nadi, incapace di volgarità, probabilmente ripugnava l’ istrionismo mussoliniano. Morì a Roma, in seguito a un ictus, il 29 gennaio 1940 e per suo desiderio fu sepolto a Portofino. A lui, nel 1948, verrà intitolata una Sala d’Armi a Salerno.

Nello stesso palazzo, in un piccolo appartamento del vasto seminterrato con giardino sede della sartoria Bucciarelli, venne ospitata negli ultimi anni di vita una vecchia cliente: Francesca Bertini (1892-1985), detta “la Divina”.

Dall’altro lato della piazza dopo il complesso di palazzine Federici quasi all’angolo della piazza si trova una lapide in plexiglas fatta apporre dalla Farmacia con la collaborazione di AMUSE, che ricorda come nella zona passasse la “Salaria Vetus”. Nella targa si parla, infatti, di Antemnae, la città ante-amnis (cioè davanti ai fiumi Tevere e Aniene) le cui donne furono rapite dai Romani. E si ricorda la Salaria Vetus, una strada precedente alla fondazione di Roma, la cui origine si perde nella notte dei tempi. Il nome della strada deriva per l’appunto dal sale, materia fondamentale per la conservazione degli alimenti, che i Sabini e gli altri popoli dell’interno acquistavano dalle popolazioni che abitavano sulle coste del Tirreno e dell’Adriatico. In particolare nella zona ci sono due tracciati della salaria antica il primo sull’attuale viale Romania verso Antemnae e l’altro, nato probabilmente dopo l’abbandono di Antemnae, sul crinale del monticello dove ora c’e’ via Bertoloni e via Denza verso l’Acqua Acetosa per poi seguire la sponda del Tevere fino al guado sull’Aniene e di un viottolo che metteva in comunicazione le due strade attraversando il fosso che percorreva questa valle.

Sulla Piazza si accanto alla farmacia si trova il Bar Mimosa, recentemente ristrutturato.

l Palazzo che ospita la farmacia, il bar Mimosa ed una agenzia della Banca del Fucino, occupa l’intero lato destro della piazza tra Viale Parioli e via Borsi. Anche questo palazzo presenta una curvatura che segue la pianta della Piazza. L’edificio è caratterizzato da una zoccolatura al piano terreno decorata con un curioso bugnato rustico con ampia cornice liscia….. lo vogliamo chiamare “Bugnato Pariolino”?

All’angolo tra Via Giosuè Borsi ed il lato destro di Viale Parioli, la palazzina di Piazza Santiago del Cile 9 ha una pianta trapezoidale ed in realtà mostra verso la piazza solo uno spigolo ingentilito al secondo piano da due nicchie vuote. La palazzina presenta un secondo piano con finestre incorniciate da ampie arcate cieche ed un terzo piano con finestre alternate a nicchie vuote sovrastate da un cornicione che incorpora i timpani delle finestre.

Dall’altro lato della piazza, all’angolo con il lato sinistro di Viale Parioli, al civico 73, la palazzina razionalista con ampie lesene che ne scandiscono la facciata, presenta una soprelevazione d’epoca che in realtà ingentilisce la facciata con ampi finestroni.

La palazzina razionalista al civico 75 presenta profonde ed ampie terrazza ture agli angoli ed una gradevole ampia finestratura. Lo spazio successivo è occupato dalla scalinata che congiunge Viale Parioli con via Barnaba Oriani dedicata a Giovanni Battista Brocchi.

Fermata 06 Davanti al 104 di Viale Parioli
Dall’altro lato di Viale Parioli, la moderna palazzina al civico 96 non presenta caratteristiche interessanti, tranne che, secondo i dettami di un’edilizia di rapina, dal secondo al quinto piano il costruttore ha lanciato in avanti gli aggetti per guadagnare in volumetria. Al contrario il successivo edificio al 98-100 di Viale Parioli presenta uno studio architettonico estremamente interessante. La palazzina si presenta a chi percorre in discesa Viale Parioli con un elegante angolo bombato che con una voluta si raccorda alla facciata sul cortile, mentre la facciata su Viale Parioli presenta due piani con profondi loggiati scanditi da colonne a pilastro e attico con terrazza che riprende il motivo dei loggiati, ma è evidentemente scoperta. L’adiacente palazzetto, all’angolo con via Umberto Boccioni, al civico 102, in barocchetto romano presenta solo una fascia decorativa al terzo piano e cornici a tutte le finestre.

Superate via Boccioni e la scalinata Brocchi, il viale riprende il suo carattere di mondanità e di fulcro della “Movida”.

A sinistra sotto il palazzo razionalista al civico 79, che presenta una sequenza di spessi marcapiani e parapetti dei balconi a fascia, al 79/d ha da poco aperto il ristorante “B.ro”che offre Hamburger e Birra in chiave cosmopolita e contemporanea, con un arredamento dai forti contrasti e grafiche decorative in riferimento alle avanguardie di inizio ‘900. Il progetto, realizzato da Studio Strato di Roma, è stato concepito dando massima importanza alla distribuzione degli spazi, agli arredi disegnati e prodotti ad hoc, all’uso di tinte e materiali diversi ma capaci di creare una narrazione unica. Lo spazio è fluido, quasi completamente open space, ma le zone risultano ben connotate grazie a interventi mirati come l’uso di colori, cambi di pavimentazione e l’inserimento della pedana rialzata, in legno verniciato a righe diagonali rosso ciliegia. B.Ro si suddivide in due parti principali: la zona banco bar, con il bancone monolitico in acciaio, cuore pulsante dell’intero locale, e la grande sala ristorante, parte della quale lascia vedere il lavoro della cucina. Infine, dotato di un lungo tavolo, un salottino più appartato, dedicato alle occasioni speciali e alle cene tra amici, “segnato” dal rosso ciliegia alle pareti.

Questo nuovo ristorante ha preso il posto di un tipico ristorante di quartiere che era “la Scala”, ritrovo domenicale della buona borghesia pariolina. Il ristorante si chiamava così in quanto adiacente alla scalinata di Via G.B.Brocchi. A sua volta “La Scala” aveva preso il posto di una panetteria che riforniva di pizza gli scolari che si avviavano alle scuole di Via Boccioni. Dall’altro lato del portone del civico 79 si trova un altro “must” della vita notturna dei parioli, il Bambu’s bar fornitore di sigarette e caffè notturni al popolo della notte (polizia e carabinieri compresi).

Sul lato destro di viale Parioli, dall’altro lato di via Boccioni, la palazzina al 104-112 presenta un angolo smussato che si rivolge piacevolmente al traffico che scende lungo viale parioli. Sullo spazio lasciato libero dall’angolo della palazzina si trova il Juice Lab bar caratteristico ricavato da un vecchio chiosco che negli anni ’60 vendeva la frutta.

Fermata 07 Davanti all’ingresso principale del Palazzo Lancia
Ai n. 122-160 si trova il grande Palazzo Lancia con davanti uno dei rari distributori di carburante rimasti ai Parioli. Il palazzo è caratterizzato da un ampia terrazza rialzata sul piano strada, dove un tempo facevano bella mostra le auto della casa automobilistica torinese. Giovanni Lancia, proprietario nel dopoguerra della casa automobilistica ereditata dal padre, abitò qui, poi per un periodo a via Ettore Ximenes, prima di espatriare in Brasile con l’attrice Jacqueline Sassard.

Il Complesso di Palazzo Lancia, ora in gran parte occupato da attività bancarie, commerciali e di ristorazione, è in realtà un edificio multifunzionale nato per ospitare attività legate alla commercializzazione ed al servizio dell’industria automobilistica, ha quindi un ampio cortile con spazi per autorimesse (ora occupato da una palestra), un fabbricato destinato ad uffici ed un’ala per le abitazioni. La Palestra è stata uno dei primi “Fitness Centre” di Roma ed era inizialmente gestito da Barbara Bouchet che abitava all’attico del palazzo. La Palestra era frequentata dalle “signore bene” dei parioli tra le quali spiccava Isabella Vallone. Sopra quello che era l’ingresso all’autosalone e che ora è l’ingresso di una banca, campeggiano in marmo due stemmi della gloriosa Lancia.

Al 122 nei sotterranei dell’ala “residenziale, si trova ora il ristorante “Molto” ce si estende su 320 mq con un’ampia terrazza. Più avanti, proprio sulla terrazza rialzata si trovano i chioschetti ed i tavolini del Gotha Cocktail bar.

Di fronte al Palazzo Lancia, sul lato sinistro di Viale Parioli ci sono i ristoranti di maggiore attrazione ospitati sul piano strada di palazzine con diverse caratteristiche. La palazzina al civico 83 presenta un sostanziale “cambio di direzione” in quanto, essendo prospiciente la curva a destra per chi sale nel viale, presenta la balconatura di maggior pregio verso valle anziché verso monte come tutte le altre palazzine. Questo edificio ha un rivestimento di facciata innovativo per gli anni ’30, realizzato con intonaco trattato ad ampi riquadri ad imitazione di un bugnato liscio.

La palazzina successiva al civico 87 ha invece due piani di stretti balconcini con balaustra in travertino, mentre la palazzina che si trova al civico 91 presenta profonde balconature agli angoli ed un paramento del piano terreno in travertino.

Tra il civico 87 ed il 91 si trova lo storico ristorante “il Caminetto” (viale parioli 89), il Dodo Bar (viale parioli 91) e la Pariolina (Viale Parioli 93) pizzeria tradizionale dei Parioli e la gelateria pasticceria nata da poco Bontique (viale parioli 91 E/F)

La storia del Caminetto iniziò quando, nel 1956, Italo Santucci che aveva 33 anni ed una consolidata esperienza affiancando il padre Valerio nel ristorante di famiglia, Il Boccale in via Veneto, passò per caso in viale Parioli e scelse dei locali sfitti al civico 89 insieme alla moglie Anna Maria Ciampini, anche lei proveniente dalla ristorazione con il bar ristorante Tre Scalini in piazza Navona. Iniziarono con 50 posti, che l’anno successivo diventarono 200, allargando la parte storica del locale. La coppia aveva già aperto il ristorante Piccolo Mondo, in via Veneto e poi si era spostata in piazza Di Pietra, con il ristorante La Borsa. Nel 1956, quindi, la passeggiata per viale Parioli fu decisiva per l’apertura del Caminetto. Il ristorante si sarebbe dovuto chiamare Al Platano, per la serie di alberi appena piantati nel viale, ma l’installazione del vecchio girarrosto prelevato dal vecchio ristorante La Borsa, impose il nuovo nome. Oggi, Italo ha passato la mano al figlio Fabrizio che insieme ai suoi figli Valerio, Lavinia e Marco e la moglie Francesca segue il ristorante con la stessa passione ed energia di sessant’anni fa.

Le palazzine ai civici 95 e 97 sono caratterizzate entrambe da un’alta zoccolatura in lavagna grezza, ma mentre l’edificio al 95 presenta ampie balconature poste di quinta alla facciata pricipale, il civico 97 appare più austero.

Al piano strada del 95 E ha aperto anche il Gianfornaio. Dall’altra parte del Viale Parioli, a fianco del Palazzo Lancia, il civico 166, all’angolo con via Carlo Stuparich, presenta un interessante reticolo di balconi angolari, che nel cortile aperto diventano quasi “case di ringhiera”. Dall’altro lato di Via Stuparich la palazzina al civico n. 180 presenta una interessante soluzione con ampie terrazze angolari rivolte verso la salita di Viale Parioli.

Fermata 08 Davanti al Duke’s
Lo stabile a seguire, forse il più vecchio di tutto viale Parioli è al civico 190 ed ospitava fin dal 1926 il ristorante “Celestina” bruciato nelle faide di Mafia Capitale, ed ora occupato dalla salsamenteria Ercoli 1928. In questo palazzo si è consumato anche lo scandalo delle Baby Squillo.

Il 190 è l’ultimo palazzo di Viale parioli sul lato destro, dopo il 190 al n. 200 c’è il Duke’s Cocktail bar.

Bar, Ristoranti e vita notturna tra viale Liegi e Villa Glori
Il surf è una religione: con i suoi orari strani (“meglio all’alba prima del lavoro”), le sue mode vistose (bragoni colorati, magliette e cappellini), i suoi tempi lunghi (in attesa dell’onda o meglio della mareggiata), i suoi ritrovi spesso improbabili (baracche sulla spiaggia e bettole da porticciolo), i suoi luoghi remoti (Hawaii, Sud Africa, Bali, California) o nostrani (Banzai di Santa Marinella, Coccia de Morto), i suoi eroi, di ieri e di oggi, maschi e femmine. Su tutti e tutto il suo indiscusso nume fondatore: Duke Kaanamoku. Inoltre, per ogni surfista che si rispetti è d’obbligo un pellegrinaggio a Waikiki Beach, un tuffo nell’acqua tiepida della baia turchese, una surfata sotto Diamond Head (”pinna di tonno” in hawaiano) e infine un pasto, sulla spiaggia nel ristorante Duke’s con i suoi menù hawaiani apprezzati non solo dai surfisti.
Cavalcare le onde dà una forte emozione e un senso di onnipotenza, come se si fosse capace di dominare la natura, e i surfisti questi sentimenti se li portano dentro in tutto ciò che fanno. E’ chiaro quindi che, quando nel 1998 i Flying Carrots, un gruppo di rampolli di note famiglie romane, tutti appassionati surfisti, decidono di diversificare le attività di padri e nonni, vanno a cercare riferimenti alle Haway piuttosto che a Testaccio. I Flying Carrots, provengono dalla famiglia Iannozzi che aveva dato vita al Jackie O’, frequentato da divi e magnati nostrani e internazionali e il loro obiettivo è ambizioso: innovare il mercato della ristorazione romana con l’offerta di una cucina di qualità superiore, con un servizio attento ai propri ospiti ma caratterizzato dall’informalità: il cosiddetto fine casual dining. Il nome del nuovo locale non potrà essere che Duke’s e il tema dominante la California, nelle sue espressioni gastronomiche, enologiche, architettoniche e di atmosfera. Chiarito l’obiettivo, è necessario trovare dove realizzarlo e i “ragazzi” trovano un posto “improbabile”, il capannone sull’ultima curva di viale dei Parioli prima delle casette dei Vigili urbani. Era stato lo showroom di Beppe Ercole dove il famoso play boy, scomparso a 72 anni nel 2010, aveva trasferito da piazza Pitagora la sua attività incentrata sull’arredamento neo-barocco (il “Furniture store”, gestito dai figli di Beppe Ercole, è ancora oggi attivo poco più giù, in fondo a via della Moschea).

I Flying Carrots si rivolgono, forse anche per affinità surfistiche, allo studio di due giovani architetti rampanti, Claudia Clemente e Michele Molé. I due in seguito daranno vita a due studi professionali, separati ed entrambi di successo (Labics di Claudia Clemente e Nemesi di Michele Molé).
“L’intervento consisteva nella realizzazione a Roma di un bar ristorante di tipo “californiano” – racconta Molé – un luogo in grado di trasmettere l’idea della West Coast”. Il progetto prevedeva la riutilizzazione e l’ampliamento di un piccolo manufatto a due piani, un seminterrato e un piano fuori terra dotato di un ampio giardino sul retro. L’immobile che aveva una struttura portante in acciaio e tamponature perimetrali in blocchetti di cemento, è stato integralmente smontato, a eccezione della struttura e della tettoia di copertura in lamiera grecata. All’interno si è creata un’ambientazione californiana attraverso l’utilizzo di un complesso iconografico facilmente riconoscibile, nell’involucro esterno del manufatto si è realizzata una struttura architettonica capace di evocare uno spazio californiano e le sue modalità costruttive. Partendo da una immagine simbolica della California, quella delle strutture in legno dei pontili e delle case sulla spiaggia, e dall’idea di “costruzione spontanea”, ottenuta cioè per addizione e accostamento di elementi fatti con materiali poveri, leggeri ed effimeri. Il luogo è caratterizzato da una serie di elementi continui e attraversanti che, oltre a definire e individuare lo spazio e le sue modalità d’uso, attribuiscono a esso quella dimensione dilatata tipica dell’orizzonte californiano: il ritmo di travi che a partire dai cavalletti che costituiscono i due fronti (realizzati entrambi ex-novo) entrano all’interno dello spazio sottoponendosi alla copertura esistente; la pavimentazione in doghe di legno che ricorda il camminamento dei pontili; e ha qualcosa di americano anche il lungo muro che dalla strada conduce al giardino e insieme a questi anche la strada e il giardino stesso. Infine le modifiche strutturali rese necessarie dalla realizzazione di una nuova scala di accesso al piano inferiore sono state risolte attraverso un setto in cemento armato a faccia vista dietro al quale sono collocati i servizi igienici e i locali di servizio; oltre a questi, sempre al piano inferiore, due superfici di lamiera di acciaio preossidato creano i locali della cantina e del
deposito.”
In questo modo il Duke’s trasmette un messaggio di “vacanza” con un bancone-bar ampio e sinuoso come un’onda, i suoi materiali “da barca”, le strutture sostenute da stralli in acciaio che danno l’impressione di trovarsi su uno yacht appena rientrato da una regata dell’America’s Cup, o meglio ancora in un bar da “Big Wednesday” dove Fly ed i suoi amici possono sedersi ancora bagnati delle onde dell’oceano e ingozzarsi di “surf & turf”.
Il menù del Duke’s è stato da subito concepito come “californiano” e innovativo, i vini vengono da vigneti lontani, (Napa Valley, Sonora e Paso Robles californiani, Barossa, Eden e McLaren Valleys, Riverina e Coonawarra australiani, Central Otago, Waipara e Malborough neozelandesi, Mendonza e Aconcagua cileni) e la cucina utilizza ingredienti internazionali di grande pregio che provengono indistintamente da tutto il mondo: la carne scozzese Angus Aberdeen, l’Ahi Tuna Pacifico, i cru di Cioccolato Valrhona, la semola di grano duro di Altamura, l’avocado Hass messicano, il Tandori Masala indiano, o il salmone Loch Fyne dalla Scozia, il gambero rosso di Mazara, gli astici canadesi, piuttosto che le patate novelle siracusane, il granchio reale della Norvegia, l’olio extravergine d’oliva umbro, il riso Koshihicari dal Giappone, la vaniglia Bourbon dal Madagascar, e così via. Il tutto cucinato da una brigata attenta ai gusti della clientela con pietanze suddivise tra “Leggeri e Profumati”, “Sfiziosi” e Gustosi”.
Davanti al Duke’s, dall’altra parte di Viale Parioli, tra il 101 ed il 110 c’è ora “Chez Coco” che utilizza gli spazi concepiti dal divo dei fotoromanzi Jeff Blynn per il proprio ristorante, di gran moda negli anni novanta.
Risalendo viale dei Parioli, al civico 192, poco più a monte del Duke’s c’è una piccola pizzeria con bianco bar chiamato Oz Cocktail bar. Questa pizzeria occupa il locale del bar “Grande Black” travolto dallo scandalo delle baby squillo che si prostituivano nel seminterrato dell’attiguo palazzo.
Dall’altro lato del portone dello scandalo, Ercoli 1928 ha sostituito la trattoria Celestina che, dopo la fondatrice era stata ceduta a Gigi Fazi, figlio del famoso ristoratore tifoso della squadra della Lazio di via Lucullo Giggi Fazi (con due g, mi raccomando) e poi all’altro figlio Marcello. Gigi Fazi fa realizzare il gazebo esterno e, negli anni ‘90, dopo la gestione sua e del fratello cede il ristorante a un famoso gruppo romano di imprenditori di pizzerie innovative che faceva capo al musicista e attore Roberto Stafoggia. Il gruppo possedeva una catena intitolata a ingredienti vegetali: “Cocomerino”, “Fiore di Zucca”, “Peperoncino” e “Pomodorini”, tutti localizzati in punti strategici di Roma Nord. In quel periodo, vista la fede bianco-celeste del ristorante, qui veniva Sergio Cragnotti quando la sua Lazio vinceva, invitando giocatori, tifosi e amici.
Dopo l’infausto crack della gestione di Celestina, il gruppo di giovani imprenditori che aveva acquistato il ristorante La Maremma che si trova proprio dall’altra parte del viale e l’aveva rinominata “La Pariolina”, acquista prima la Gastronomia Ercoli a via Montello, in Prati, e poi trasforma Celestina in Ercoli 1928 con un look da country club all’americana e un menu coordinato con l’offerta di prelibatezze che compaiono nei lunghi banconi di cristallo e acciaio.
Nel palazzo Lancia, il Cocktail-bar Gotha occupa dal 2014 una piccola parte del grande autosalone della Lancia e dell’antistante terrazzo dove una volta le auto facevano bella mostra di sé, mentre la parte centrale, col grande ingresso sormontato da due stemmi della gloriosa casa automobilistica, sono da molti anni la sede di un’agenzia del Monte dei Paschi di Siena. Il look del Gotha si basa prevalentemente sull’esterno dove una piattaforma nera, protetta da grandi ombrelloni, riscaldata e tenuemente illuminata dalle fiamme azzurrine dei funghi a gas e delle grandi lanterne in vetro e ottone, garantisce un’atmosfera dinamica e piena di energia da bar di Star Wars dove non ti stupiresti se comparisse Chubekka a ordinare un drink dagli improbabili colori. L’interno del locale infatti richiama, se non le atmosfere, certamente i colori siderali di Guerre Stellari con un lungo bancone illuminato e traslucido di color giallo oro con, davanti e dietro, altissime cristalliere illuminate di azzurro violaceo stipate di bottiglie e bicchieri dalle varie fogge. In fondo alla sala un soppalco circolare ospita comode poltrone dall’aspetto neo-barocco in broccato da fumoir orientale e un po’ peccaminoso.

Nei locali dello stesso palazzo sotto il livello della strada, dove una volta era il magazzino ricambi, c’è oggi il ristorante Molto (in realtà il nome è “Molto Italiano”) che da ormai circa quindici anni rappresenta la cucina italiana di gran classe. Questo ristorante è frutto di una operazione di promozione dei punti di forza dell’eccellenza italiana concepita da un gruppo imprenditoriale (che fa capo alla famiglia Bassetti) con l’intenzione di coniugare stile e cucina del territorio, valorizzando anche i prodotti della propria azienda agricola di Cerveteri. Nel 2006, il gruppo decide di rilevare il grande negozio di stoffe e abbigliamento presente dal … ??? nell’ex magazzino ricambi del Palazzo Lancia e trasformarlo in un prestigioso ristorante aggiungendo qualità ed eccellenza in questo angolo di Roma dove convivono tendenze contemporanee e tradizione. Un’idea originale rispetto ai consueti canoni capitolini, realizzata con successo in una delle strade più frequentate dagli amanti della buona cucina. La filosofia di Molto persegue la volontà di creare qualcosa dal forte sapore italiano, ricercando prodotti di qualità del territorio e rispettando la stagionalità, garantendo così una continua variazione delle proposte del menù. Lo Chef di Molto è Paolo Castrignano che rivisita in chiave moderna e personale la cucina della tradizione regionale e del territorio, realizzando piatti unici. La cantina è impeccabile, i clienti possono scegliere tra molteplici proposte alla mescita, oppure dalla carta dei vini costituita da oltre cento etichette nazionali. Unica eccezione oltre confine è un’accurata selezione di distillati e champagne.
Per trasformare il magazzino di stoffe in un prestigioso ristorante la ARP si rivolge allo studio Arkjpan di Paola Niolu e Junio Cellini specializzati in arredamenti e restyling di gran classe. In realtà, la location del ristorante, pur contando su un indirizzo e un edificio di grande prestigio, non era delle più facili, in quanto il locale, stretto e lungo, su viale dei Parioli ha solo l’accesso con una scala che scende a quello che sarebbe un seminterrato di palazzo Lancia ma che, sul retro, si apre su un’ampia terrazza che si affaccia sul sottostante cortile. Il pavimento della terrazza è in vetrocemento in modo da dare luce ai sottostanti grandi locali della ex-officina. Il locale inoltre aveva, quasi in centro, una grande struttura di di cemento armato addossata al seminterrato dal lato del viale.
Viste le idee precise e i propositi ambiziosi che i proprietari avevano per nuovo ristorante, gli architetti hanno operato un “ribaltamento” del fronte e quello che era il retro, affacciato sul cortile interno e caratterizzato da grandi e alte vetrate, è diventato la parte del ristorante più gradita alla clientela che apprezza la tranquillità e la riservatezza garantita dalla lontananza dal viale. Mentre le cucine sono verso viale dei Parioli e il grande raccordo con la sala del ristorante è marcato da un grande girarrosto che, assieme al bancone bar bianco-panna ad angolo ottuso, attira lo sguardo dei clienti che entrano nel locale. Il girarrosto è in realtà il cuore e l’anima di Molto che rende questo locale un luogo di attrazione unico a livello cittadino. La ricerca del girarrosto giusto tra Francia e Italia , peraltro, ha impegnato i progettisti per diversi mesi. L’arredamento, infine, è accogliente ed elegante sia nel salone che sull’ampia terrazza riscaldata, in linea con l’obiettivo dei progettisti di creare un luogo disinvolto e con un disegno internazionale ma che, nello stesso tempo, si armonizzasse con le aspettative degli abitanti dei Parioli.
Anche la realizzazione di Molto ha attirato l’attenzione degli abitanti del quartiere, curiosità di capire che cosa avrebbe avuto da dire un ennesimo ristorante in una zona già così inflazionata. Oggi, a diversi anni dall’apertura, è possibile affermare che il ristorante è accogliente ed elegante, in coerenza con il quartiere alto borghese in cui si colloca, e presenta un design non estremo o di effetto ma nello stesso tempo, disinvolto e con un tratto internazionale che ha contribuito al successo registrato.

Il grande girarrosto di Molto, forse, aveva l’obiettivo di soppiantare nel cuore dei pariolini il camino del Caminetto 1959, lo storico ristorante che si trova dall’altro lato del viale.
In realtà negli ultimi anni Caminetto è stato lasciato dai Santucci ad una cooperativa di propri dipendenti, mentre l’attività di famiglia si è trasferita su viale Bruno Buozzi e, per un breve momento, nei locali dell’ex “La Scala” che erano stati improvvidamente acquisiti da un ristorante chiamato “Big Al” che, con grande disappunto degli abitanti del circondario, inneggiava ad Al Capone. Santucci aveva concepito un nuova attività “bipolare” di pesce su viale Bruno Buozzi e di carne in questi locali chiamati “Taglio Reale” che però non ha avuto poca fortuna ed è stato ceduto.
Tra il Caminetto e La Scala si trova il Bambu’s bar di Marco Sesic, molto frequentato dalle forze dell’ordine del circondario anche perché, quasi su piazza Santiago del Cile, dietro il celebre negozio di dischi “Città 2000” si svolgeva intensivo una attività di un gruppo di squillo, collegate con Sylvia Lopez. (???). Bambu’s gestisce ora anche il ristorante dell’Antico Tiro a Volo.

Il negozio di dischi “Città 2000” di Viale Parioli 94, dove ora si trova Sterling negli anni ’70 era un riferimento certo per gli amanti della musica Rock.
Quasi su piazza Ungheria il ristorante “La Palmerie” ha sostituito il negozio di abbigliamento di tendenza della catena “Brandy Melville” fondato da imprenditrici romane come quelle di Subdued (marchio di abbigliamento dell’azienda romana Osit Impresa). Brand importante distribuito da Brandy Melville è “Patagonia”.
Al Ceppo è un ristorante con oltre cinquanta anni di storia che, naturalmente, ha subito un passaggio generazionale: dalla gestione delle mitiche sorelle Milozzi, bellissime e bravissime, si è passati alla gestione dell’altrettanto mitica Caterina Marchetti, figlia di una delle due sorelle. Caterina ha sentito naturale il bisogno di adeguare il ristorante alla sua visione e ai suoi progetti futuri, ponendo però la massima attenzione al mantenimento del carattere del locale. Un carattere ormai riconoscibile e soprattutto così radicato nel cuore degli abitanti del quartiere e, in particolare, dei suoi clienti storici. I lavori di adeguamento sono stati condotti in punta di piedi, in un blitz agostano durante il quale, a parte un leggero restyling generale di tutto il ristorante, con il rinnovamento di pavimento, tende, luci e una tinteggiature, è stata letteralmente stravolta solo la prima sala. Nuove vetrate per essere visibili dalla strada, via il vecchio bar che non lavorava, via la boiserie che invecchiava tutto; al suo posto una leggera libreria piena di vini (punto forte del ristorante) ben illuminata, un tavolo sociale al centro della sala e tavoli da bistrot, con sedie e divanetti rivestiti con stoffe raffinate nella zona bar. Il punto focale del locale è la griglia, completamente ridisegnata: un lampo di acciaio su di una parete nera. Il risultato è andato oltre le aspettative, in questi dieci anni, il Ceppo ha acquisito una nuova clientela più giovane e attenta ai ristoranti di moda, riuscendo contemporaneamente a non deludere le aspettative della clientela storica e affezionata, rimanendo per loro un luogo sicuro di accoglienza calda e familiare. I tavoli della prima sala sono sempre prenotati, Lilli Gruber e Eugenio Scalfari, tra gli altri, vogliono solo quelli.

Il “Caffè Hungaria”, conosciuto da tutti per il “completo”, hamburger farcito di ogni cosa, è stato per decenni un punto focale del quartiere e di tutta la città ma aveva subito negli anni un declino apparentemente irreversibile. Nel … il locale è stato rilevato dai fratelli Cola, la cui famiglia aveva gestito il bar Doney a via Veneto ed è proprietaria, in città, di altri caffè storici. I nuovi proprietari hanno un obiettivo chiaro: riportare Il celebre caffè ai fasti antichi e, se possibile, superarli. Gli architetti non ricevono dai committenti alcuna indicazioni sul nuovo design. Il patto non scritto era che i progettisti, visto il budget di spresa previsto, avevano il compito di creare con il nuovo Caffè Hungaria il fiore all’occhiello dell’azienda dei Cola. L’elaborazione del progetto è stata relativamente facile: l’Hungaria aveva una forte connotazione di caffè mitteleuropeo, che è stata seguita, rendendola ovviamente contemporanea oltreché moderna. Le difficoltà sono state quasi esclusivamente di ordine strutturale, il locale infatti è lungo e stretto, in quanto originariamente a ogni vetrina corrispondeva una piccola bottega. Nella ristrutturazione si è lavorato per dare all’interno una sensazione di profondità e ampiezza, per creare dall’esterno, viste a cannocchiale che ne amplificassero i volumi, per sottolineare l’unicità della esposizione strategica ad angolo, e che angolo, con ben 9 vetrine su strada. All’interno sono stati usati materiali preziosi, quali ottone, marmi pregiati, specchi molati e anticati, tutti lavorati su disegno, per riecheggiare, attraverso i materiali stessi e anche i più piccoli dettagli, le atmosfere dei caffè di Vienna e di Budapest di fine Ottocento. L’esterno, giocato su grandi tende nere e tavolini di acciaio brunito dovrà invece essere ripensato seguendo le nuove indicazioni dei Vigili Urbani. Se è vero che il successo, almeno in tema di locali pubblici, si basa sul fatturato, i Sigg. Cola sono molto sorridenti dal giorno dopo l’apertura, il …
Le ristrutturazioni sia del ristorante Al Ceppo che del Caffè Hungaria sono state svolte allo studio Arkjpan. Mentre operavano su questi due “luoghi simbolo” dei Parioli, gli architetti si sono trovati, anche un pò inaspettatamente, davanti al forte interesse degli abitanti dei palazzi intorno e di tutto il quartiere che hanno dimostrato su questi due “luoghi simbolo”. Nel corso dei lavori di entrambi i locali, numerosi signori e signore di età (e livello sociale) medio alta, sono venuti spesso a dare “un’occhiata” al cantiere, formulando spesso domande sui lavori che manifestavano il timore che il progetto non rispettasse la memoria storica del locale. I due locali infatti erano indiscutibilmente riferimenti decennali per loro e la loro storia familiare e queste persone, con il loro comportamento esprimevano il desiderio, quasi la necessità, di tornare ad appropriarsi di quei luoghi,

E da ultimo arrivò il “Caffè Hungaria”. I fratelli Cola, proprietari di altri storici Caffè in città, subentrano nella gestione del celebre caffè, conosciuto da tutti per il “Completo” hamburger farcito di ogni cosa, dopo che il locale aveva subito negli anni un declino apparentemente irreversibile. L’obiettivo era chiaro: riportare l’Hungaria ai fasti antichi e, se possibile, superarli.
La committenza, in questo caso, non ci ha dato indicazioni di nessun genere sul design, affidandosi completamente a noi. Il patto non scritto era che, dato il loro sostegno in termini di budget ed investimento, noi creassimo non solo il nuovo Caffè Hungaria, ma anche il fiore all’occhiello della loro azienda. L’elaborazione del progetto per noi è stata relativamente facile: l’Hungaria aveva ai nostri occhi una connotazione cosi forte di caffè Mittelleuropeo, che questa abbiamo seguito, rendendola ovviamente contemporanea oltreché moderna. Le difficoltà sono state quasi esclusivamente di ordine strutturale, il locale era lungo e stretto, originariamente ad ogni vetrina corrispondeva una bottega, abbiamo lavorato per renderlo profondo, ampio, per creare dall’esterno, viste a cannocchiale che ne amplificassero i volumi, per sottolineare l’unicità della esposizione strategica ad angolo su strada con ben 9 vetrine.
Nell’ interior, ci è stato permesso di usare materiali preziosi, quali ottone, marmi pregiati, specchi molati ed anticati, tutti lavorati su disegno, per riecheggiare, attraverso i materiali stessi e anche i più piccoli dettagli, le atmosfere dei caffè di Vienna e di Budapest di fine ‘800.

Dall’altro lato di Viale Parioli ai civici 101 e 103 ci sono due piccole palazzine a cortina dopo le quali l’ex ristorante Jeff Blinn’s è diventato Chez Coco da ponza e sushi bar.

Nella parte bassa del viale dei Parioli, all’angolo con via della Moschea, vicino al Mercato Parioli, c’è una fontana è di recente costruzione (2011) che può essere considerata una citazione moderna e non troppo riuscita, della vicina Fontana dell’Acqua Acetosa.

Fermata 09 Piazzale della Rimembranza
Superata la moderna localizzazione dell’ex-mercato di via Locchi, all’interno del quale sono rimasti pochi banchi, ed alcuni dei quali sono diventati bar, il percorso passa davanti all’ingresso di Villa Fiammingo ora Caltagirone. Villa Fiammingo, una volta Villa Alpi o ancor prima Casale Toschi Tiberi, è un parco con ingresso su viale dei Parioli 117A che si adagia sulla pendice scoscesa del Monticello. In alto in via Barnaba Oriani c’è un secondo ingresso ma la costruzione della villa è praticamente invisibile, se ne può apprezzare solo una vista parziale dalla passeggiata in alto su Villa Glori. Tutto nasce dal casino della vigna della contessa Lucia Toschi Tiberi (Casale Toschi Tiberi), nell’Ottocento trasformato in villa Alpi. L’attuale villa è il risultato dell’ampliamento voluto dall’onorevole Giuseppe Fiammingo che acquistò la villa e ne affidò la ristrutturazione nel 1929 a Vincenzo Morali, lo stesso che aveva restaurato, pochi anni prima, villa Abamelek sul Gianicolo. Successivamente il parco della villa fu parzialmente lottizzato e costruito e la villa stessa parzialmente demolita e ricostruita su progetto dell’ing. Parboni nel 1958. In quella occasione Parboni fece copiare da Versailles il parquet del salone principale. Oggi la villa è la residenza di Caltagirone.

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