“Passeggiando al Pincio” di Maria Grazia Toniolo

RACCONTO DEL FLANEUR ROMA2PASS PUBBLICATO IL 10 MAGGIO 2023

C’è qualche socio AMUSE che mi vuole accompagnare in una passeggiata al Pincio? Oppure non avete voglia di mischiarvi con la pazza folla dei turisti che si fanno i selfies con il Cupolone come sfondo? Avete ragione a pensarla così: il Pincio da passeggiata aristocratica e dannunziana si è trasformato in un Luna Park troppo affollato. Ma noi per godercelo sceglieremo le ore del primo caffè della mattina, quando il sole sorge alle spalle dei pini di Villa Borghese e mette a fuoco, senza l’aggressività del tramonto, particolari non troppo noti. 

Dunque immaginiamo di essere su viale delle Magnolie, senza l’intralcio dei monopattini, degli skateboard e di quegli enormi veicoli su cui le famigliole straniere si affannano a pedalare per i viali della villa. Gli uccelli cinguettano, i pappagallini emettono i loro suoni stridenti, ma sono così graziosi con le piume verde-smeraldo e il beccuccio arancione! Superiamo l’Obelisco Pinciano e il panorama si apre davanti a noi. A sinistra si eleva la palazzina settecentesca detta Casina Valadier (l’architetto se l’era costruita come sua dimora privata ma, purtroppo per lui, non fece in tempo ad abitarla); a destra ci avviamo verso il grande piazzale Napoleone.

Lo sguardo è subito attratto da due palme filiformi che ondeggiano spinte dal vento. Se le osserviamo con attenzione, invece di precipitarci verso la balaustra per rivedere il panorama col Cupolone, noteremo che non sono gemelle: sono simili ma diverse, come le due chiese di piazza del Popolo.

Quella al centro del piazzale è un po’ più esile, ha il ciuffo fogliare meno ricco e con abbondanti infiorescenze arancioni. L’altra, verso destra, è alta lo stesso (circa 25 metri) ma appare più robusta, il ciuffo fogliare ha foglie pennate più numerose, mentre le infiorescenze sono meno vistose. Per noi, sia l’una che l’altra sono semplicemente “palme” e in effetti queste piante sono entrambe delle Arecaceae, ma questa famiglia è composta da circa 2500 specie: e quindi andiamo a conoscere meglio questi due splendidi esemplari davanti a noi.

La prima al centro del piazzale si chiama Phoenix dactylifera, è endemica nella costa meridionale del Mediterraneo dove forma le oasi; viene coltivata per la produzione di datteri, un tempo cibo per le popolazioni indigene, oggi golosità per il mondo globalizzato. A proposito, la qualità migliore dei datteri per morbidezza freschezza e gusto si chiama “medjoul” e viene prodotta in Israele e in Tunisia. Di questa varietà di palma si usa anche la ”linfa” per produrre un liquore, lo “stipite” (cioè il tronco) come legname e le foglie per intrecciare stuoie e cordame.

Le Arecaceae fanno parte di un gruppo di piante la cui vita risale a ben 80 milioni di anni fa e la cui coltivazione è documentata in Mesopotamia da 4000 anni. Si differenziano dagli alberi in quanto il loro accrescimento è dovuto alla morte o al taglio del giro più basso di foglie (mentre per i tronchi degli alberi l’accrescimento avviene per un complesso scambio biochimico all’interno della corteccia).

Il magnifico esemplare davanti a noi è stato piantato per costituire una specie di gnomone, di centro geometrico di un cerchio, che per metà si proietta verso il Cupolone e i tramonti fiammeggianti, mentre l’altra metà si nasconde tra pini, lecci, ippocastani, una canfora, una sequoia, un ginkgo-biloba. Nelle foto-cartoline spesso viene inquadrato questo tronco sottile che, emergendo fra le ombre delle piante, fa la guardia da cent’anni al sole che sprofonda nel mare al largo di Fiumicino; e alla sagoma di San Pietro che risalta gigantesca sulla città quando i raggi dorati le augurano la buonanotte.

Dobbiamo ringraziare la Fortuna per il fatto che il maledetto Punteruolo rosso non abbia trovato la strada per annidarsi nel cuore di questa palma. Se un esemplare di questo genere si fosse infettato e fosse morto sarebbe stato un danno enorme per la grazia geometrica di questo giardino: il suo isolamento e la sua statura lo hanno salvato.

C’è un concetto molto importante da tener presente nel valutare l’armonia di un giardino: il giardino è una creatura viva che cresce e cambia con il passare del tempo. Quando si osserva un parco storico come villa Borghese, che ha circa 400 anni, si deve avere la consapevolezza di stare di fronte a un essere maturo che si è trasformato pian piano da una prateria disseminata di virgulti di lecci, di platani, di palme, di allori, di magnolie, divisi dai viali e dalle piazzole del progetto, in un sistema adulto fatto di boschetti, radure, siepi, cespugli fioriti e aiole. Questa meraviglia che a volte noi attraversiamo con noncuranza e sufficienza, è la realizzazione del sogno progettato dal Principe Borghese che, purtroppo per lui, nonostante le ricchezze e la fortuna di essere nipote di Papa Paolo V, non ha mai potuto gioire dell’ombra e dei profumi di cui oggi noi godiamo.

Cosa dovrebbe fare un governo attento se non conservare con cura il dono immenso di questa eredità? Rispondetemi voi, gentili lettori! E sapete perché? Perché un parco distrutto (dall’incuria) può essere ripiantumato secondo i disegni originali, ma noi non potremmo mai beneficiare della spettacolare maturità dell’insieme come oggi ci appare se non aspettando centinaia di anni. Per assurdo, se San Pietro crollasse potrebbe essere ricostruito all’incirca com’è in qualche decina di anni (come l’abbazia di Montecassino). Ma villa Borghese e parchi simili se venissero distrutti sarebbero persi per secoli.

Ora osserviamo la seconda palma: il suo nome scientifico è Phoenix canariensis, il suo luogo di origine è nelle Isole Canarie. Le sue bacche non sono commestibili, ma il suo stipite e le sue lunghe foglie pennate sono usate dagli indigeni sia come legname che come materiale da tessere, come nel caso della palma da datteri. I Guanchos (i nativi delle Canarie sterminati dagli Spagnoli) avevano ideato un sistema per estrarre dal cuore dell’albero un particolare miele, chiamato “guarapo”, con il quale ancora oggi si insaporiscono alcuni piatti (per esempio le melanzane tagliate a bastoncini e fritte, una delizia!)

Gli europei si accorsero fin dal l’800 che la Phoenix canariensis è più decorativa, più elegante in un giardino della sorella Phoenix dactylifera e poiché in Italia i datteri non arrivano maturazione, anche oggi si tende a preferire la palma delle Canarie per ombreggiare giardini e lungomari. Ma se gli esemplari non sono vicini è difficile attribuire il nome giusto alle palme che si incontrano.

Al Pincio il connubio è particolarmente felice perché le palme si innalzano sui cespugli bassi delle aiuole senza disturbare la visione magica del celebre panorama; il contrasto fra gli stipiti che ondeggiano e i bassi parterres sono il colpo d’ala che trasforma il Pincio da giardino ovvio in terrazza indimenticabile. Anche se pochi turisti riusciranno a fare i nostri ragionamenti sul perché del particolare fascino del luogo.

Ora, tornando verso il viale delle Magnolie, scopriamo un tipo di palme completamente differente: hanno uno stipite più robusto, sono meno slanciate e le foglie hanno la forma di ventaglio: il loro nome è Brahea armata. Sono estremamente decorative e possenti; sono state importate dai deserti messicani nella seconda metà dell’800 e si sono acclimatate benissimo in Italia.

Andando avanti ci fermiamo per osservare meglio le Arecaceae che spuntano qua e là: infatti sono loro che stiamo studiando nella passeggiata di oggi.

Nel verde, appare una vasca a forma di laghetto con la sua isoletta collegata a terra da un ponticello di legno. Lo stile è falsamente rustico secondo la moda romantica del tardo ottocento. Sull’isola rocciosa è incastonato l’orologio ad acqua opera di padre G.B. Embriaco che lo ideò intorno al 1870. Il meccanismo è composto da due vaschette a forma di foglia che sono riempite alternativamente da un getto d’acqua; le loro oscillazioni trasmettono il moto alle lancette dei quadranti. Una curiosità unica e divertente: ma noi dobbiamo osservare le piante che trasformano questa fontana in un angolo misterioso.

La vasca è circondata da palme differenti da quelle che abbiamo osservato finora: sono più basse ma sono molto sottili, le loro foglie sono a forma di ventaglio, il tronco è ricoperto di filamenti che sono i resti sfilacciati delle basi fogliari e formano una specie di tessuto protettivo per lo stipite. Questa palma che si chiama Trachycarpus fortunei arrivò a metà ‘800 dall’estremo oriente e quindi si adatta bene anche a climi medio-rigidi; le infruttescenze sono grossi grappoli scuri di drupe che assomigliano a grappoli di uva nera. Sono palme molto decorative perché come tutte le altre sono molto sensibili al soffio dei venti.

Vicino a loro, ma di dimensioni ridotte, ci sono i ciuffi di Chamaerops humilis che noi chiamiamo Palma nana o Palma di san Pietro. E’ una varietà di Arecaceae diffusa nella vegetazione mediterranea costiera. Il loro portamento è caratterizzato dal fatto che ogni cespo ha parecchi stipiti di differente altezza e che, con le loro foglie a ventaglio, creano grandi cespugli eleganti; sono piante, infine, di facile coltivazione per le poche esigenze che hanno.

Intorno al laghetto ci sono altre piante che sembrano palme ma non lo sono. Sono chiamate Cycas revoluta, sono state importate dal Giappone a metà ‘700 e sono dei veri “fossili viventi“ in quanto erano presenti nel Mesozoico cioè 200 milioni di anni fa e da quel periodo sono rimaste simili a se stesse, senza evolversi.

Qui il discorso si fa complesso e è meglio limitarsi a ammirarle in compagnia delle loro lontane cugine Arecaceae che stiamo osservando. Il ciuffo di fogliame pennato, coriaceo e verde intenso le accomuna alle palme in modo che nell’insieme formano una quinta preziosa per il laghetto dell’Orologio.

La nostra passeggiata finisce qui: spero che vi sia stata utile per osservare con attenzione e le centinaia di palme che spuntano a Roma dai giardini privati, che formano viali nei parchi, che fanno a gara per superarsi in altezza e in eleganza. Piante che hanno perso l’iniziale sapore esotico per entrare a far parte del nostro paesaggio.

Per chi non è ancora stufo di particolari sul giardino del Pincio qui potrà leggere un breve racconto di come questo luogo magico si è modificato nei secoli.

Ci fermiamo magari seduti in panchina e ne riassumiamo la storia.

La collina del Pincio fin dal I sec a. C. era un luogo mirabile con il suo affaccio sul Tevere, quindi era conteso tra le famiglie aristocratiche del tempo: vi avevano i loro horti (giardini) gli Anicii, gli Acilii, Lucullo, Sallustio e più tardi i Pincii. Nel medioevo e nel rinascimento la zona tornò ad essere una proprietà agricola, appartenente agli Agostiniani di Santa Maria del Popolo, confinante con gli orti di villa Medici e della confraternita di Trinità dei Monti. Quando Napoleone fece occupare Roma (1808-1814) dette anche l’ordine di progettare un giardino “pubblico” nella Capitale che avrebbe dovuto vedere suo figlio incoronato Re di Roma. Sappiamo che il sogno fu di breve durata.

Ma con la Restaurazione Valadier fu pronto a riprendere le redini del progetto e a donare alla città papale un giardino pubblico aperto a tutti. Il disegno immaginato derivò da variazioni del classico giardino all’italiana e del romantico parco all’inglese.

Si creò un parco/passeggiata da percorrere in carrozza, a piedi, a cavallo, per incontrare il bel mondo romano, mescolato sia ai turisti internazionali che ai popolani romaneschi. Il modello fu copiato all’estero. Per esempio a Parigi la terrazza di Montmartre davanti alla Basilica che domina il panorama della capitale francese (certo con minore grazia).

Pubblicato 12/05/2023

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