“Gli oleandri in fiore” di Maria Grazia Toniolo

RACCONTO DEL FLANEUR ROMA2PASS PUBBLICATO IL 28 GIUGNO 2021

A metà giugno a Roma , come in tutta l’area compresa tra il Mediterraneo e il Medioriente da Lisbona al Mar Nero, c’è un’esplosione di fiori bianchi, rosa, magenta, porpora, salmone, rame, crema, arancio: sono i soliti malvisti antipatici oleandri che tentano di farsi perdonare la loro fama ambigua con un fuoco d’artificio di colori che durerà per 4/5 mesi. 

In genere gli oleandri sono poco amati, sono considerati adatti solo come spartitraffico nelle autostrade lungo la costa e sopportati nei paesini di villeggiatura sul lungomare e in piazza. Scontano un’antica fama di avvelenatori, quando le greggi o i bambini in campagna masticando per gioco le foglie (amarissime e coriacee) si procuravano seri disturbi digestivi. Ai nostri giorni penso che nessuno sia così sciocco da mettere in bocca qualsiasi fiore o frutto che è esposto ai veleni del traffico.

Cari lettori, io vi confesso che sono innamorata delle fioriture dell’oleandro  e che ogni anno resto stupefatta e incantata  quando all’improvviso quegli alberelli dal verde insignificante scoppiano di colori con una generosità che è inversamente proporzionale alla mancanza di cure di cui sono stati l’oggetto. Da via Nomentana dove abito c’è una lunga passeggiata che parte da via Tripoli, continua per via Nemorense, poi per via Sebino, quindi per via Tagliamento e si conclude a piazza Quadrata ovvero piazza Buenos Aires. Google map dice che sono 2,7 km, e io ci credo. Insomma 2,7 km di palle fiorite, alcune sono piccole, altre storte, altre appena piantate, parecchie giganti e con la loro massa coprono alcune finestre dei secondi piani.

I colori si alternano a caso e questo fatto rende la via più simpatica, genuina, quasi campagnola. Non c’è stato il disegno militaresco del paesaggista che ha costretto i colori a programmarsi con ordine da scaffale di supermercato. Anzi ho l’idea che siccome gli oleandri sono arbusti di bocca buona che accettano di crescere senza cure, affidandosi al sole e all’acqua del buon dio, si uniscano in gruppi  per simpatia e adottino la stessa tonalità.

Ma che cos’è un oleandro? Ippolito Pizzetti (in foto) autore della più intelligente enciclopedia di fiori e piante, afferma che: “…nulla in contrario a mettere gli oleandri nei giardini purché in un clima e in un paesaggio che si adattino loro e purché si lascino crescere in grandi cespugli di qualche metro di diametro, fitti e trionfanti “.  Qui potrei inserire la polemica che riguarda piazza Verbano e le atroci potature a cui abbiamo assistito, ma non lo faccio perché voglio solo godere della magnificenza gratuita di questi arbusti.

I botanici chiamano l’oleandro Nerium, nome scelto da Linneo, per ricordare che d’estate questa pianta ha bisogno di acqua; infatti fiorisce spontaneamente lungo corsi, fossi e canali. Questo succede in Grecia, nel sud della Spagna, sulle coste africane, in Sardegna ecc. L’habitat romano è di sicuro ottimo per loro e per goderne al massimo ci sarebbe bisogno di poche cure: una potatura di contenimento annuale, il sostegno del tronco con tutori quando sono giovani e un po’ di rispetto. Dico questo perché spesso ho visto i ragazzini che quando, finite le scuole, sono liberi di scorrazzare verso le piazze e i bar in cerca di birrette, attaccarsi ai rami più bassi e piegarli lasciandoli ciondoloni: infatti i rami sono elastici e non si spezzano.  Ma così facendo si toglie l’armonia a quel gran mazzo di fiori che cerca il sole.  Completiamo la spiegazione del nome botanico: Nerium deriva dalla radice greca  “acqua” e non indica il concetto di  “nero”, come forse viene in mente ai più.

Cari lettori, se non siete ancora convinti della grazia di un albero di oleandro lasciatemi raccontare dei piccoli flash che mi sono rimasti da numerosi viaggi alla ricerca di paesaggi incontaminati e giardini straordinari.

  Il primo si riferisce alla regione del Périgord, il territorio del vino Bordeaux, delle oche e del paté de foie gras, ma anche di castelli innumerevoli, di fiumi incontaminati, di panorami di grande dolcezza.  Un giorno di giugno di qualche anno fa eravamo attesi per pranzo al Castello della Bourlie (in foto). Il proprietario, marchese di Commarques, ci raccontò la storia del maniero la cui fondazione risale al XII sec.; fu “rimodernato” nel XIX sec. da Viollet Le Duc, che lo trasformò in piacevole residenza invece che fortezza di difesa. Poi arrivò la marchesa, un’amabile signora di origini russe che ci raccontò di come si fosse dedicata dal momento delle sue nozze al restauro conservativo del parco. Sui infiniti prati smeraldini spiccavano gruppi di cedri, un ciliegio delle dimensioni di una quercia ( chissà che spettacolo la fioritura!) e i tassi che sono l’emblema del luogo.

Questi tassi hanno la forma di uova di pasqua, l’altezza di 5m. e sono intervallati da grandi cespugli di rose antiche ingabbiate in strutture di legno per mantenerne la verticalità. Formano un viale regolare che dal castello arriva al villaggio di Urval. A metà del percorso due tassi giganteschi sono stati potati all’interno a ventaglio per creare una stanza di circa 20mq con panchine, come punto di riposo o di incontri romantici. 

Queste alberature risalgono al ‘700 e non hanno l’uguale in nessun giardino europeo. Non voglio descrivervi le altre fioriture, le aiuole, la piscina: immaginateli pensando ai nostri meravigliosi giardini. Vi dico solo che alla fine del percorso Vera la marchesa mi portò in un angolo riparato del cortile dove mi mostrò con grande orgoglio un vasetto (come un nostro geranio) i cui rametti rachitici portavano due miseri fiorellini di oleandro.  Anch’io – disse la marchesa – ho un oleandro come avete in Italia!

Questo altro ricordo risale al maggio 2007 e siamo in Turchia, sulla costa dalle parti di Antalya. Per raggiungere le rovine dell’antico porto di Phaselis (in foto), città greca e poi romana, scendiamo da una barca direttamente sul bagnasciuga di sassi scivolosi. Non c’è traccia di costruzioni umane. Dovremo camminare in un ruscello di fresca acqua potabile che si versa nel mare. Non è semplicissimo. Penso a Ulisse, a Nausicaa e ai tanti marinai e viaggiatori dei secoli lontani. Percorso un breve tratto con circospezione, ci imbattiamo in un sarcofago decorato da una nave in bassorilievo e da un’epigrafe in versi greci. “Sei arrivato all’ultimo porto, né l’aurora né il vento ti porteranno mai altrove. La tua vita è stata più breve di una giornata “. 

Intorno, a consolazione del povero marinaio che giace lì dai tempi di Alessandro Magno, sbocciano beati gli oleandri rosa con le radici nell’acqua fresca e i fiori al sole. Intorno il boschetto continua con mirti cisti, canne, acacie, fichi.

Un’ultima istantanea. Siamo nel Al-Andalus, in viaggio tra Siviglia e Cordova, in un giugno già torrido. La campagna spagnola come tutti sapranno, è una distesa color ocra, di una sfumatura intensa e ostile. Non ci sono case né paesi all’orizzonte, ci si chiede chi avrà seminato e mietuto quelle distese di grano. All’improvviso un misero fosso divide due campi: ecco la vita, fresche canne ondeggiano al vento e gli oleandri si pavoneggiano felici  in mezzo al deserto (vedi foto).  

Mi auguro che queste righe vi spingano a osservare con simpatia i Nerium che spuntano in quantità dai giardini e lungo le strade.  

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