“Maggio a Villa Ada” di Maria Grazia Toniolo

Il secondo parco pubblico della Capitale è costituito dall’ex residenza Savoia oggi chiamata Villa Ada.   Si tratta di un enorme comprensorio verde di circa 130 ettari, che dal quartiere Parioli si estende fino a Forte Antenne, praticamente alla confluenza dell’Aniene nel Tevere, Inutile sottolineare quanto la zona sia ricca di testimonianze storiche; oggi è sede di prestigiosi circoli sportivi. 

Ma torniamo alla Villa: il suo confine più importante è quello su via Salaria lungo circa 3,5 km. La Salaria è una strada antichissima, precedente alla fondazione di Roma, che collegava la costa alla Sabina, permettendo così il commercio del sale. Oggi la via dalle Mura Aureliane va ad Ascoli Piceno. Poiché i Romani avevano l’abitudine di seppellire i morti fuori dalle mura, ancora dopo circa 2800 anni la parte destra della via per chi entra in Roma è una quieta campagna difesa da un muro di recinzione, punteggiata da tempietti e catacombe.

Queste notizie fanno venir voglia di entrare immediatamente nella Villa, di visitare la palazzina Savoia, di scoprire le scuderie reali, di perdersi fra le ombre degli alberi, di fermarsi nelle cappelle.  Ma non è cosi facile come si può pensare.  Qui non siamo a Villa Borghese, proprietà acquistata da Scipione nipote di papa Paolo V per andare a caccia e per costruirvi la palazzina/galleria ove esporre le sue collezioni antiquarie e i capolavori degli artisti prediletti. In quel caso, la proprietà, ampliata dai successivi principi, fu acquistata dal Governo italiano nel 1901 per donarla alla città di Roma.  Quella di Villa Ada invece è una storia molto più complessa, che vi voglio raccontare.

Al giorno d’oggi il turista che da via di villa Ada voglia visitare il giardino si trova davanti a un fastoso cancello chiuso da decenni. Poco più in la c’è un’apertura, ma subito vi si parano davanti dei soldati in tuta mimetica con la loro brava camionetta che controllano la direzione che i visitatori prendono. Perché quella che fu la residenza di re Vittorio Emanuele ll è ora l’ambasciata di Egitto e come tale è considerata “obbiettivo sensibile” e quindi è difesa notte e giorno dai nostri militari, inavvicinabile perché di fatto territorio straniero, o è proibito fotografarla. Insomma appena entrati siamo già bloccati.

La storia di questo angolo segreto comincia a metà del Settecento quando il principe Pallavicini comprò un vasto terreno agricolo con degli edifici a cui fece aggiungere un villino di vacanza, diremmo noi oggi (Villa Pallavicini). Era la moda del momento fra la nobiltà: il principe Torlonia era andato a comprare la campagna a via Nomentana (Villa Torlonia); i principi Doria Pamphili sulle colline dell’Aurelia; i Chigi avevano una villa con parco nelle vicinanze della Salaria (Villa Chigi); e l’elenco potrebbe continuare. L’ovvio scopo di questi acquisti era quello di allontanarsi dal calore estivo del centro storico e dalla “mal’aria”.
Il principe Pallavicini intorno al suo villino fece fare un giardino chiamando a disegnarlo Francesco Bettini, il quale introdusse per primo a Roma il gusto paesaggistico neoclassico all’inglese. La griglia di viali diritti che si incontrano perpendicolarmente e che conducono a “sorprese” è ancora oggi perfettamente leggibile. II Tempio di Flora o Coffee-house col suo laghetto contornato da rocailles è sempre là con la sua magia.

Purtroppo l’amministrazione capitolina non si cura dei tanti gioielli che possiede e l’acqua è sparita dalla fontana, mentre le foglie morte dei lecci riempiono la vasca. Diciamo che la passione anglosassone per creare finte rovine è stata raggiunta con l’abbandono della zona da parte dei giardinieri comunali.
A metà Ottocento la proprietà passò ai principi Potenziani, una famiglia originaria di Rieti, e perciò interessati a stare sulla via Salaria. Non portarono modifiche di rilievo a quei 150 ettari che avevano acquistato.

Nel 1870 con la presa di Porta Pia, Roma fu dichiarata Capitale d’Italia e di conseguenza Vittorio Emanuele II fu costretto a venirci ad abitare. Fino a quel 20 settembre la residenza dei pontefici era stata il Quirinale, ma con l’ingresso dei bersaglieri il Papa si ritirò in Vaticano e lasciò al re il Palazzo.
Vi racconto alcuni aneddoti. Si dice che il re, che si sa essere stato un uomo sanguigno, donnaiolo, gran cacciatore, anticlericale amante delle montagne savoiarde, appena entrato al Quirinale esclamasse: “Questo palazzo puzza di preti” e di conseguenza dette ordine di trovare e acquistare una villa fuori porta come sua residenza privata. La scelta cadde su villa Potenziani col suo immenso parco dove si poteva andare a caccia tra le collinette. Intanto i re faceva costruire per la sua amante, la bella Rosina, divenuta contessa di Mirafiori con le nozze morganatiche, la villa omonima su via Nomentana, che oggi e sede della facoltà di lettere della Sapienza. D’altra parte nella vita del re c’è una leggenda poco conosciuta.

Ci racconta D’Azeglio che, quando suo padre Carlo Alberto, re del Piemonte, si recò in visita a Firenze dai Granduchi di Lorena con la famiglia, l’erede al trono, allora di 2 anni, subì un gravissimo incidente: la sua culla prese fuoco e il piccolo mori per le ustioni.  Per nascondere ai sudditi piemontesi la tragedia, il bebè reale fosse stato sostituito dal figlio di un macellaio fiorentino che poi fu cresciuto a Torino come erede Savoia.  Questa storia spiegherebbe il carattere focoso e l’imponenza fisica del re. Molti anni più tardi, quando Vittorio Emanuele si reco a Londra in visita ufficiale e dovette ballare il valzer con la regina Vittoria, pare che la regina dopo l’ennesimo pestone, esclamasse “Questo Savoia è un gran bestione, ma credo che sarebbe l’unico uomo della festa in grado di difenderci in caso di bisogno”.

Intanto Vittorio Emanuele si occupava delle sue proprietà e riuscì, prima della sua morte (avvenuta nel 1878 e perciò In soli 6 anni), a realizzare la palazzina reale, a far costruire casali e scuderie e a ordinare al paesaggista Emilio Richter di trasformare il parco secondo lo stile rustico “all’inglese”. I grandi lavori di spostamenti di terra sotto la direzione di questo architetto ci hanno consegnato il parco che oggi viviamo.

I viali tortuosi si snodano tra collinette e valli, boschi fitti contrastano con le radure a prato, un gioco d’acqua forma un laghetto (e il famoso laghetto delle tartarughe Trachemys scripta che, buttate da mamme e bambini, vi hanno trovato un habitat perfetto per crescere e moltiplicarsi). Dal laghetto esce un ruscello che seguendo la pendenza naturale del terreno confluisce nel grande lago finale costruito negli anni Ottanta del secolo scorso. Il Richter, a capo dei giardini di Roma e botanico esperto, introdusse esemplari allora rarissimi come le Sequoia sempervirens che giganteggiano strette nella vegetazione dopo l’ambasciata, numerose specie di palme tra le quali la Phoenix dactylifera, le Cycas revoluta, i Cedrus deodara, un Cedrus atiantica glauca pendula, i Pinus strobus, il boschetto di Bambusa pygmaea e un enorme Fagus syvatica Atropurpurea, molto raro nel clima romano.

Dunque nel 1878 sali al trono una coppia snob e social: re Umberto e la regina Margherita. Si insediarono nel palazzo del Quirinale che restaurarono secondo il gusto del tempo e contemporaneamente vendettero la villa di via Salaria a un dirigente della Banca Romana, il conte Telfner, che la chiamò Ada in onore di sua moglie. Ma pochi anni dopo, il fatto che il conte fu travolto dallo scandalo della Banca e dal sospetto di un tentativo di speculazione della proprietà e l’assassinio nel 1900 del re Umberto stravolse tutti i progetti nella famiglia reale.

La nuova coppia reale formata da Vittorio Emanuele III e da Elena di Montenegro riacquistò con gioia la villa e il parco, per allontanarsi dai fasti del Quirinale e vivere una parvenza di vita borghese.
La villa fu ingrandita e sul retro fu creato un “giardino segreto” secondo lo stile rinascimentale. Qui vissero i reali con le loro quattro figlie e l’erede principe Umberto. La regina si dedicava più volentieri alla famiglia e alle opere di bene che alle feste di corte. Fu certamente lei a introdurre gli alberi da frutto che si incontrano qua e là, e a trasformare negli anni della guerra zone del parco in orti, come Rachele, moglie del Duce, stava facendo nella sua residenza di Villa Torlonia.

Qui a Villa Ada si consumò il momento più drammatico di quegli anni tragici: il 25 luglio 1943 Mussolini, appena destituito dal Gran Consiglio va dal re a conumicare le sue decisioni e appena uscito dalla residenza reale è arrestato e trasportato via in autoambulanza. Ma anche i re con la famiglia e il primo ministro Badoglio erano ormai in gran pericolo e come si sa l’8 settembre, dopo l’armistizio, fuggirono di notte verso Pescara e poi a Brindisi per raggiungere gli Alleati. Fino alla fine della guerra la coppia reale visse a Napoli nominalmente sotto la protezione del Comando Americano, di fatto subendo molte umiliazioni. Solo nel maggio 1946, ormai convocato il referendum per scgliere tra monarchia e repubblica, il re decise di abdicare al trono in favore del figlio Umberto II, il “re di maggio”, e si imbarcò per Alessandria d’Egitto. Re Faruq lo ricevette con tutti gli onori e gli offri come residenza uno dei suoi palazzi.

A questo punto vi racconto un aneddoto che ho sentito in ambasciata e che non si racconta nei libri di storia. Pare che Vittorio Emanuele per ringraziare e contraccambiare le gentilezze di re Faruq gli abbia consegnato le chiavi della sua Villa che teneva in tasca da quel tristissimo 9 settembre 1943. In pratica gli donò la sua casa nella quale nessuno era più entrato, con tutto ciò che conteneva di ricordi, di memorie, di oggetti persona&. Re Faruq (che per inciso fu deposto meno di dieci anni dopo, nel 1952 e passò il suo esilio a Roma, ma all’hotel Excelsior) affidò la villa al suo ambasciatore in Italia come residenza ufficiale. Da allora si sono susseguiti i rappresentanti della nazione egiziana che naturalmente sono divenuti padroni di tutto il suo contenuto, dai vestiti, alle foto, ai ricordi, agli argenti, ai quadri, ai mobili di casa Savoia.

Per chi è invitato in ambasciata, credetemi, fa un certo effetto vedere dipinto dappertutto lo scudo Savoia, ammirare in alto nei saloni i ritratti delle principesse, vedere l’argenteria esposta, con lo stemma Savoia e contemporaneamente gustare falafel.

Sono stata nel famoso giardino, oggi non fotografabile a causa del problemi politici che sta vivendo l’Egitto. E un giardino molto piacevole, adatto a una famiglia borghese di alto livello. Vi si accede dal saloni attraverso una scalinata di travertino che scende verso una vasca rettangolare che alla fine ha due platani giganteschi. Aree geometriche riempiono il parterre, inquadrate dalle siepi di bosso. Un insieme nobile ed elegante, di difficile datazione come tutti i giardini nati tra le due guerre. La recinzione è abbellita da orci di scavo e qua e là vi sono sarcofagi, urne romane e statue antiche e al antica.

Ma come continua la storia del Parco?  Dal 1946 la Repubblica italiana dovette fare i conti con le proprietà Savoia.  Fu un problema complesso, anche per i numerosi tentativi di speculazione edilizia (per la maggior parte non riusciti), e la soluzione notarile arrivò solo cinquant’anni dopo.  Allo stato egiziano rimase la proprietà del casino nobile della villa col suo giardino privato e il tutto oggi gode dello status di extraterritorialità.  Le eredi Savoia ereditarono due villini: il Casino Pallavicini e Villa Polissena ancora oggi abitati da discendenti.  Cosi al Comune di Roma sono rimasti circa 130 ettari di parco, con gli edifici inclusi nel comprensorio, che – come si dice – sono un polmone verde per il quartiere.

Dagli anni Ottanta sono stati fatti grandi lavori di riqualificazione e di restauro, con l’aggiunta di percorsi ginnici, la riapertura di zone che erano state inghiottite dalla vegetazione, il collegamento con via Panama, che fino a quel momento ora un percorso adatto solo a Indiana Jones. Ma molto resta da fare, soprattutto dal punto di vista della manutenzione ordinaria.

Il gioiello settecentesco del Tempio di Flora è in abbandono. Il Casale delle Cavalle Madri è in rovina. Una tempesta del mese di marzo 2015 ha abbattuto dei pini sul parco-giochi e il servizio giardini si è limitato a interdire l’accesso alla zona recintando il luogo con un nastro di plastica rossa. Guardate l’oscenità di questo pino gigantesco caduto che pare giacere a gambe divaricate. La chiesina di San Silvestro, da cui si accede alle Catacombe di Priscilla  sotto il traffico di via Salaria, è sempre chiusa perché è proprietà delle l’omonimo convento.  In una zona remota del parco c’è un maneggio privato di grande fascino: è come immerso nel silenzio dell’antico agro romano.

Oggi siamo ai primi di maggio e entrando nel parco pare di essere invitati a una festa di matrimonio: dappertutto fioriture bianche, spontanee: l’azzurro cobalto del cielo e le massicce ombre dei lecci esaltano il candore diffuso nei prati dalla primavera. Le foglie verde tenero dei sambuchi sono ricoperte da infiorescenze delicate che sembrano i centrini di pizzo delle nonne, Anche i viburni blu-acciaio si sforzano di continuare nella fioritura che dura da mesi. Il prato smeraldo diventa cupissimo sotto l’ombra del cespuglio di palme nane, intanto più in là le ombrellifere si dondolano al vento spuntando dal fosso. É un incanto gratuito, imprevisto, mutevole: un temporale potrebbe farlo sparire.
C’è un secondo atto nella descrizione della villa. A distanza di circa un anno, ripercorrendo lo stesso itinerario, quello che faceva emergere i ricordi di famiglie reali o borghesi impegnate in picnic e passeggiate a cavallo, ci troviamo a contemplare mozziconi di Pinus pinea abbattuti, boschetti di Quercus suber in agonia, Buxus centenari trasformati in legnetti per accendere il fuoco. Il famoso laghetto delle tartarughe è stato ridotto a una misera fossa di fango rappreso e di sporcizia. Ci auguriamo che le tartarughe abbiano almeno arricchito il compost.

Che dire? Che il Servizio Giardini Capitolino è in dismissione? Che la crisi non guarda in faccia al Bello? Che i giardini sono entità mutevoli e fragili? Che le rose vanno ammirate nell’attimo stesso in cui si aprono perché più di tanto non durano? Ma qui dalla giardineria si passa alla filosofia.
Comunque Villa Ada in tutte le stagioni è un parco straordinario, vivo di memorie e di percorsi di jogging, di feste di bimbi e di panchine appartate per gli innamorati, è un’oasi nella nostra convulsa, caotica capitale che fa sognare la magia dei parchi anglosassoni.

Racconto già pubblicato dell’autrice nella rivista Rosanova nel n. 45 Luglio 2016

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