Il rapporto dei romani con i luoghi simbolo della campagna fuori le mura era continuo. Le famiglie che vivevano all’interno delle mura amavano le gite “fuori porta”: ai Castelli, alle Acque Albule presso Tivoli, o alla Fontana dell’Acqua Acetosa, situata tra la via Flaminia e la Salaria.
La fama di questa salutare acqua che scaturiva in riva al Tevere fuori porta Flaminia, di cui numerosi storici, medici e chimici hanno trattato, risale all’inizio del secolo XVII, quando il Papa, Paolo V Borghese, per far fronte alle numerose malattie che serpeggiavano tra i soldati e la popolazione, su consiglio di valenti esponenti dell’arte medica, fece costruire la fonte che, attraverso condotte allacciate alla sorgente, erogava gratuitamente a tutti quanti ne avevano necessità la salutare acqua, cui è stata dedicata una scritta:
PAULUS V PONT. MAX. AN. SAL. MDCXIII PONT. IV RENIBUS ET STOMACHO, SPLENI CORIQUE MEDETUR: MILLE MALIS PRODEST ISTA SALUBRIS AQUA (1)
Dopo la costruzione della fontana voluta da Paolo V, altri pontefici, convinti da illustri scienziati della efficacia dell’acqua acetosa, si interessarono sia alla sua conservazione spesso minacciata da inquinamenti dovuti ai frequenti straripamenti del Tevere, sia intervenendo a difesa della fontana con restauri e modifiche, come fecero prima Papa Innocenzo X e poi, nel 1661, Alessandro VII Chigi, il quale le diede l’aspetto di monumento, facendola ricostruire su disegno del Bernini, ampliandola, depurando le condutture, circondandola di alberi e dotandola di tre getti di acqua per favorirne la distribuzione al numeroso pubblico: “…Essa componesi di un specie di esedra curvilinea, divisa in basso da pilastri, fra cui apronsi tre nicchie decorate con gli stemmi di casa Chigi, al di sotto dei quali sgorga l’acqua da tre bocche cadendo in tre tazze. Un frontone, che con vari risalti ne corona il prospetto, racchiude lo stemma pontificio con la iscrizione:
ALEXANDER VII. P. M. UT ACIDULAE SALUBRITATEM NITIDIUS HAVRIENDIA COPIA ET LOCI AMOENITAS COMMENDARET. REPURGATO FONTE ADDIT-IS AMPLIORI AEDIFICATIONE SALIENTIBUS UMBRAQUE ARBORUM INDUCTA PUBLICAE UTILITATI CONSULVIT A. S. MDCLXI (1)
Successivamente altri pontefici, come Clemente XI e Benedetto XIV, provvidero alla conservazione della sorgente, ai restauri della fontana e alla sua manutenzione; l’intervento del primo, sicuramente uno dei più importanti, è ricordato con un’altra lapide:
CLEMENS XI PONT-MAX COERCITO FLUMINE – CORRIVATIS VENIS PURGATIS DUCTIBUS – INSTAURATO FONTE ACIDULAIE SALUBRITATI – ET CONSERVATIONI PROSPEXIT / ANNO SAL – MDCCXII – PONT – XII (1)
La fontana dell’Acqua Acetosa, oltre a costituire una specie di dispensario farmaceutico gratuito per la popolazione, ha alimentato per secoli una industria povera ma particolarmente caratteristica dei costumi romani: quella dei tradizionali venditori d’acqua e, in questo caso, degli acquacetosari, di cui già si parlava in tempi remoti: “Io ho pur veduto stillar un’acqua alla ripa del Tebro vicino a Ponte Molle, di sapor d’aceto, e bevutane più volte, che levatone un certo odore di fango e di creta, diletta al palato, come farebbe un vino che fosse per inacidire, e viene usata assai in Roma dalla nation Francese e dalli ammalati, che con somari portata per le pubbliche vie, si vende comunemente, né viene altrimenti biasimata dai signori medici”. (1)
L’incremento del commercio dell’acqua acetosa era dovuto oltre che agli interventi dei pontefici, alla fiducia nelle sue qualità terapeutiche dei medici e anche dei francesi residenti in Roma: sia a quelli del XVII secolo, sia a quelli entrati in città nel 1849, che ne facevano grande uso, tant’è che aumentò notevolmente il numero dei venditori ambulanti e sei somari che trascinavano per la città i carretti con i barili e i fiaschi.
L’acquacetosaro, nonostante il gran lavoro, occupava uno dei gradini più bassi della variegata scala commerciale esistente in Roma, come testimoniano le immagini e le descrizioni che ci sono giunte: “Un uomo lacero e mal vestito, a volte a piedi, a volte seduto sul carro con le gambe ciondoloni da un lato, conduce un tardigrado ciuco od un vecchio ronzino, attaccato ad un rozzo e sgangherato veicolo, sul quale il più delle volte trovasi riunita l’intera famiglia, nonché i miseri penati e tutto il patrimonio, rappresentato dal carro, dal giumento, da alcune ceste contenenti i fiaschi, le quali sono a un tempo la cuccia dell’inseparabile cane di guardia. Ciascuno dei componenti la famiglia, maschi e femmine, dal più grande al più piccolo, ha la sua parte di lavoro da compiere. Il padre conduce il ciuco e fa la sentinella al carro ad ogni fermata; in mancanza del marito, è la moglie che disimpegna tali funzioni, seduta sul carro con il bambino lattante in braccio; mentre i figlioli più grandicelli hanno l’incarico di ripetere alternativamente la cantilena ‘freescaaa l’aaacquaaa-acetosaaa’ per fare réclame alla merce…”. (1)
All’inizio del secolo scorso, quando ancora la città non era estesa fuori le mura, i prati intorno alla fontana erano invasi dai somari messi in libertà dagli acquacetosari impegnati a riempire i fiaschetti, e una volta l’anno all’Acqua Acetosa ci andavano in gita tutti gli alunni delle scuole elementari di Roma, che si radunavano all’alba a Piazza del Collegio Romano, da cui partivano incolonnati verso la meta:
“Per la passeggiata annuale, occorreva provvedersi di un berretto di tela grezza alla scozzese, orlato con una fettuccia rossa, che formava al finale due codini svolazzanti sulla nuca, così da sembrare il copricapo di un perfetto garzone di scuderia, e i più abbienti dovevano acquistare… una divisa fatta completamente di tela, con pantaloni lunghi, serrati in fondo dalle ghette. Questi privilegiati, la mattina dell’adunata che si effettuava a Piazza del Collegio Romano allo spuntar dell’alba, venivano incolonnati quali campioni di stile e di eleganze subito dopo la fanfara dell’Istituto della Sacra Famiglia. Seguivano gli “ordinari”, cioè quelli in abito borghese, anch’essi con berretto da stallino, tascapane e borraccia, e quando il corteo si metteva in moto, si notava tutta una retroguardia formata da un codazzo di castagnacciari, di pasticceri ambulanti muniti del sacchetto con le palline della tombola per la lotteria, di bibitari, bruscolinari eccetera.
La sfilata avveniva per il Corso ed era fiancheggiata da gran parte dei genitori… Siccome la passeggiata aveva anche lo scopo di far consumare ai baldi podisti una merenda all’aperto, appena il corteo giungeva all’Acqua Acetosa, dopo il saluto alla militare, con la mano sulla visiera che non c’era, reso quale omaggio al signor “Direttore della ginnastica”, si scioglievano le file, si mangiava sull’erba e coloro che volevano dimostrarsi più resistenti giocavano a “buzzico” fintanto che uno squillo di tromba non indicava l’abbandono del “castagnacciaro” e del “ciambellaro”, per ricomporre le squadre e tornare stracchi morti in città…”. (2)
Nel primo decennio del Novecento, dopo che l’amministrazione comunale aveva dato in appalto l’esercizio dall’Acqua Acetosa ad una ditta, con lo scopo di ottenere un vantaggio economico e di garantire l’igiene, sia con il recapito dell’acqua ai clienti entro poche ore dall’imbottigliamento, sia con l’accurata sterilizzazione dei recipienti, il mestiere dell’acquacetosaro aveva ricevuto un primo drastico ridimensionamento, ed era destinato a scomparire negli anni successivi, quando la estesa rete tramviaria e di autobus pubblica e le auto private, hanno fatto dell’Acqua Acetosa una località bene organizzata e di agevole accesso che ancora a lungo ha permesso al pubblico di godere della benefica acqua, in un contesto gradevole, tranquillo e igienicamente garantito. Negli anni trenta il direttore della Biblioteca Lancisiana pubblicava su Capitolium, la rivista del Comune di Roma, uno studio storico sull’opera berniniana, che si concludeva con delle considerazioni relative allo stato in cui al momento si trovava la fontana, accompagnate da una preoccupazione e da un auspicio: “Oggi la popolazione aumentata affluisce sempre più numerosa alla sorgente. Sono anch’io frequentatore più o meno assiduo della fonte e non mi sono sfuggiti taluni inconvenienti che derivano dall’affollamento […]. Nel passato esisteva maggiore conforto di ombra. Caduta per vecchiezza ed abbandono la folta alberatura, furono sostituite nuove piante, in parte grame, in parte isterilite. Ma questi sono dettagli di limitato valore in confronto di un problema più ampio: la preservazione della sorgente. Si deplora l’illanguidimento del flusso. Non pretendo di fare violenza ai processi della natura, ma penso che potrebbe essere attenuato utilizzando rivoli che si disperdono … A questo punto, ricordando che l’arginamento del Tevere rappresentò l’opera di maggiore entità nel risanamento clementino, onde ovviare ai danni della lenta corrosione, mi domando se anche oggi il bacino dell’Acqua Acetosa sia interamente assicurato da tale pericolo. Una superficiale indagine fa rilevare che nessuna traccia esiste più dei lavori idraulici eseguiti [… ]. Infine si deve tener conto della grande stazione ferroviaria da erigersi nella località… E’ nei voti che la grande opera sia compiuta senza pregiudizio alcuno per la sorgente…”. (3)
Non sappiamo quali accorgimenti siano stati adottati quando si è realizzata la linea ferroviaria Roma-Viterbo e la stazione dell’Acqua Acetosa, tant’è che la sorgente ha continuato a essere utilizzata dai cittadini ancora per molto tempo, anche nel periodo della seconda guerra mondiale come sicuro approvvigionamento idrico, fino a che negli anni Sessanta, dopo la scoperta dell’inquinamento delle acque che l’alimentavano, la Fontana è stata disattivata.
Privata della sua funzione di erogatrice pubblica della salubre acqua, di luogo di aggregazione sociale, di piacevole e corroborante meta di gite e passeggiate, è stata presto abbandonata al suo destino, andando incontro ad un inevitabile degrado: soffocata tra un parcheggio, un deposito di mezzi della Nettezza urbana, un incrocio di strade trafficate, un supermercato e un nuovo mercato rionale di dubbio gusto, ai piedi della celebre Villa Glori ai Parioli, la fontana del Bernini si è trasformata in una specie di discarica e crocevia di appuntamenti dubbi e pericolosi che hanno rischiato di condannarla ad una triste fine. Solo un tardivo intervento da parte delle pubbliche istituzioni l’ha recuperata da un colpevole oblio e riportata agli antichi splendori, senza però restituirle la sua famosa acqua che, nel frattempo, chissà mai dove è andata a finire; ora la celebre fontana è un monumento “asciutto”, chiuso in gabbia, e non è più frequentata dal suo numeroso pubblico, tra cui a fine settecento, figurava anche Goethe il quale dall’inizio del Corso vicino a Piazza del Popolo dove alloggiava, si recava a piedi tutte le mattine alla fontana, per bere un bicchiere della benefica Acqua! (4)
Goethe lascia Roma nel febbraio del 1787 e finisce di pubblicare il suo Italienische Reise nel 1817 generando nella nazione tedesca una irresistibile passione per il Grand Tour. Pochi anni dopo, nel 1820, l’affascinante Kronprinz Ludwig Karl August, principe ereditario di Baviera, che diventerà Re Ludwig I nel 1825, viene a Roma dove conosce e s’innamora di una tenera fanciulla, la marchesa Marianna Florenzi di Perugia. Entrambi gli amanti sono sposati, ma ciò non impedisce loro di compiere romantiche passeggiate “fuori porta” ed in particolare proprio all’Acqua Acetosa che certamente fu particolarmente cara ai due innamorati.
Tanto che il principe, per rendere più confortevole e ameno il luogo dei suoi incontri, fece costruire, ai due lati dell’esedra, due panchine in travertino e fece piantare intorno alla fontana numerosi olmi. Sulle due panchine fece incidere due scritte, una in tedesco e l’altra in italiano: su quella a destra “LUDWIG BAYERN’S KRONPRINZ LIES DIESE BAENKE UND BAUM SETZEN 1821”, mentre a sinistra, quasi del tutto scomparsa, si legge “LODOVICO PRINCIPE EREDITARIO DI BAVIERA HA FATTO METTERE QUESTI SEDITORI ED ALBORI MDCCCXXI”.
La storia, senza speranza per “ragion di stato”, generò tuttavia una tenera amicizia fra i due e non ebbe mai fine tanto che Ludwig I conservò per Roma e per questo luogo un affetto speciale. Marianna, figlia del conte Giuseppe Bacinetti di Ravenna, era stata data in sposa a sedici anni ad Ettore Florenzi, Marchese di Rasina, più anziano di lei di venticinque anni. Due anni dopo il suo matrimonio, ed una prima figlia, iniziò il suo romanzo d’amore con Ludwig che durò fino alla morte del re. I due si scambiarono lunghe visite ed un appassionato epistolario di migliaia di lettere. Ludwig fece ritrarre Marianna in decine di ritratti compreso un busto di Bertel Thorvaldsen.
Il figlio di Marianna, Ludovico, da lei dato alla luce il 31 ottobre 1821, era ufficialmente considerato il figlio del marito Ettore, ma molto probabilmente era figlio di Ludwig I, suo padrino, che fece educare lui e sua sorella in Baviera e che si occupò di lui per tutta la vita. Dopo la morte di Ettore Florenzi nel 1832, Marianna sposò nel 1836 il gentiluomo inglese Evelyn Waddington. Per amore di Ludwig, Marianna Florenzi aveva imparato il tedesco interessandosi alla lettura di opere filosofiche, ed ha rappresentato in Italia l’ideale femminile di donna colta e spiritosa. Oggi nessuno lo ricorda più, ma è proprio grazie a Marianna Florenzi che la letteratura e la filosofia tedesca è stata conosciuta in Italia. E’ stata lei la prima traduttrice di importanti opere tedesche che ha poi pubblicato in italiano, come come gli scritti di Schelling e Leibniz, promuovendo inoltre la diffusione in Italia di Kant e Spinoza.
Da parte sua Ludwig I, oltre che per i suoi burrascosi amori con Lola Montez che causò la sua abdicazione dopo i moti del 1848, è famoso per aver promosso l’Oktoberfest. Tuttavia a noi fa più piacere ricordare le fughe d’amore tra gli olmi dell’Acqua Acetosa che i fiumi di birra delle feste di Monaco di Baviera.
Note
- Paolo Picca, “L’acqua acetosa e gli acquacetosari a Roma”, Nuova Antologia, maggio 1910
- Piero Scarpa, Vecchia Roma, Roma, Editore Ferri. 1939, p. 126
- Alessandro Canezza, “Il risanamento clementino dell’Acqua Acetosa e l’opera di Giovanni Maria Lancisi”, Capitolium, N. 11, novembre 1931, p. 576
- Viaggio in Italia. Johann Wolfgang Goethe. Mondadori. 1983
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