“Fra Cannoni e Osterie” di Armando Bussi

Questo racconto si è classificato 3° nel concorso Premio AMUSE 2023.

Non tutti sanno che Porta Pia sostituisce una più antica porta romana, dalla quale usciva, con un tracciato leggermente diverso dall’attuale, la via Nomentana.

 Tale porta, anch’essa chiamata porta Nomentana, era stata realizzata nelle mura edificate sotto l’imperatore Aureliano tra il 270 ed il 275 d.C. e  venne murata 15 secoli dopo (nella foto) sotto papa Pio IV. Fu infatti tale pontefice che fece costruire – circa 80 metri più a ovest, fra il 1561 e il 1564 – la porta che da lui prese il nome, progettata da Michelangelo Buonarroti in modo tale da risultare in asse, da una parte, con la nuova Strada Pia (attuale via XX Settembre); dall’altra, con un differente percorso della via Nomentana; così si creò un unico rettifilo, dal Quirinale fin quasi al complesso della basilica di Sant’Agnese

Tuttavia la Porta Pia che vediamo ora è un po’ diversa da quella michelangiolesca. Il grande artista toscano, infatti, si interessò solo della facciata interna, quella che, appunto, prospettava sulla Strada Pia in direzione del Quirinale; mentre il fronte esterno, verso la Nomentana, rimase allo stato grezzo, incompiuto, per oltre tre secoli (nella litografia di Luigi Rossini, una veduta ottocentesca della facciata michelangiolesca di Porta Pia).

Ora, se da Porta Pia imbocchiamo via Nomentana, tenendoci sulla sinistra, ci troviamo a fiancheggiare una serie di palazzi, per lo più fine Ottocento o inizio Novecento, il cui accesso è in genere costituito da un alto portone di legno; finché – al civico 133 – ne troviamo uno con un ingresso più arioso, chiuso da una cancellata, oltre la quale si intravede un poggio alberato. Ci fermiamo qui: non pare un luogo particolarmente significativo, eppure anch’esso, come molti a Roma, può raccontarci tante storie di varie epoche, storie di cannoni e di osterie, appunto (in figura la cancellata di via Nomentana 133).

Per esempio, i cannoni compaiono nell’incisione del 1747 di Giuseppe Vasi, dove si vedono gli esercitispagnolo e napoletano, accampati di fronte alla Porta, nel 1744, in un episodio della lunga guerra di Successione Austriaca, dopo la vittoria sugli stessi austriaci nella battaglia di Velletri (ricordata nel terzo atto dell’opera “La forza del destino” di Giuseppe Verdi). La notte del 3 novembre del 1744, infatti, il condottiero di quella vittoria,  Carlo III di Borbone, dormì nella settecentesca Villa Patrizi (a sinistra della Porta) per fare visita il giorno successivo al Papa Benedetto XIV e procedere poi per Viterbo dove svernò con tutto il suo esercito forte dei cannoni e delle bombarde che si vedono appunto nell’acquaforte .(nell’immagine Giuseppe Vasi: Porta Pia ot Viminalis 1744).

Ma certo quella del 1744 non fu l’ultima occasione in cui si videro i cannoni lungo via Nomentana. Un’altra volta fu nel 1867, quando Giuseppe Garibaldi tentò di prendere un’Urbe ancora capitale dello Stato Pontificio, per riunirla all’Italia nata sei anni prima; venne però sconfitto a Mentana dagli eserciti francese e pontificio, che poi rientrarono trionfalmente in città attraverso – appunto – la Nomentana e Porta Pia  (nella foto uno dei 42 cannoni francesi tipo “La Hitte da 24” a bocca esagonale, “L’Aubépine”, usati a Mentana nel 1867 ).

Intanto un altro papa Pio, Pio IX, aveva affidato una serie di lavori di restauro e completamento della nostra porta all’architetto Virginio Vespignani, che li completò nel 1869, quando venne finalmente inaugurata la facciata esterna (vedi foto) del manufatto michelangiolesco (identica a come la vediamo ora); peccato che, appena un anno dopo, siano ricomparsi i cannoni e, stavolta, per bombardarla. Infatti, il 19 settembre 1870, partiti ormai i francesi, l’Esercito italiano aveva circondato Roma e stava per assaltare l’ultimo dominio papale. Il comandante italiano Raffaele Cadorna, emanati i primi ordini operativi dal suo quartier generale a Casal de’ Pazzi, si era trasferito a Villa Albani; ciò in quanto, pur prevedendo di impegnare le difese cittadine su vari fronti, aveva disposto che “il vero attacco sarà fatto fra le Porte Pia e Salaria” (attuale piazza Fiume), di fronte a tale villa; da là doveva iniziare un cannoneggiamento con tre batterie: la 5a, 6a e 8a del 9° Reggimento.

Ma c’era un problema: il Papa aveva dichiarato che avrebbe scomunicato chi iniziava a sparare sulla città, e il Generale italiano non voleva mettere in imbarazzo i suoi ufficiali, molti dei quali credenti; fra di essi ce n’era però uno, il Capitano Giacomo Segre, (foto) a cui della scomunica non importava perché … era ebreo. Era inoltre un ufficiale abile ed esperto, così – vuoi per la sua professionalità, vuoi per la religione professata – l’ordine di tirare la prima cannonata fu dato a lui, che dirigeva la 5a batteria. Secondo alcuni studi, Segre si sarebbe attestato davanti al quartier generale di Cadorna, all’altezza dell’attuale via di Villa Albani; noi qui optiamo per la versione più accreditata, che colloca invece tale batteria accanto alla via Nomentana, quasi davanti a Porta Pia, su un poggetto situato fra le attuali vie Reggio Emilia, via Alessandria e via Cagliari, che allora ovviamente non esistevano.

La distanza tra la batteria del Capitano Segre e le mura, circa mezzo chilometro,  era ottimale e la visuale completa, non essendoci, allora, nulla fra quel punto e le mura. L’attacco doveva partire alle ore 5,15 del 20; senonché alle 5,05 alcuni militari papali appostati fuori le mura, dall’altro lato della Nomentana nel parco della  Villa Patrizi (dove poi sorgeranno il Ministero dei Lavori Pubblici e il palazzo delle Ferrovie dello Stato Italiane) videro il movimento nelle file nemiche e tirarono improvvisamente alcune fucilate (evidentemente per loro la scomunica non valeva); così colpirono mortalmente un Caporale artigliere della batteria di Segre, Michele Piazzoli. I pontifici poi si ritirarono dentro Porta Pia, mentre il nostro Capitano faceva ugualmente partire  la prima cannonata.

Ebbene, il “poggetto” su cui si attestò la batteria del Segre era proprio quello che si può intravedere dalla cancellata di Via Nomentana 133. In quel 20 settembre, quell’area faceva ancora parte di una delle famose “ville” appartenenti ad una famiglia della nobiltà romana, i Capizucchi che, come i Torlonia proprietari di Villa Albani, non si erano potuti opporre all’occupazione della loro proprietà da parte dell’Esercito Italiano. (nell’immagine si vede Villa Capizucchi e Porta Pia da Villa Patrizi).

Giacomo Segre, decorato di Medaglia d’Argento al Valor Militare per il suo operato di quel giorno,  arrivò al grado di Colonnello, per morire poi a soli 55 anni. Meglio di lui fece il figlio Roberto, nato due anni dopo Porta Pia: seguendo le orme paterne fu ufficiale di artiglieria e combatté nella prima guerra mondiale divenendo Generale. Se ne andò nel 1936, evitando per un pelo di sottostare alle vergognose leggi razziali fasciste contro gli ebrei (che comunque colpirono la sua famiglia, costringendola  a espatriare).

È stato calcolato che dopo la prima cannonata ne furono tirate contro le mura altre 887 (una palla di ferro restò sempre lì a testimoniarlo, incastrata nelle mura, in una torre all’altezza dell’attuale via Po, la cosiddetta Turris omnium perfectissima); alla fine – per merito soprattutto della batteria di Segre – un pezzo del baluardo crollò, aprendo una breccia larga una ventina di metri, da cui si accedeva al parco dell’allora villa Paolina (ai giorni nostri Ambasciata di Francia presso la Santa Sede). Da lì entrarono i bersaglieri e altri militari, la battaglia venne vinta, Roma fu Capitale e, per un po’, del pezzo che aveva sparato il fatidico primo colpo non si seppe più nulla. (in figura la Breccia di Porta Pia vista dal terrazzo  di villa Patrizi).

Quel 20 settembre era un martedì, e i romani accolsero i militari italiani, i bersaglieri in particolare, con grande partecipazione, come raccontò Edmondo De Amicis, ufficiale e cronista per conto della rivista “Italia Militare”. L’entusiasmo fu tale che, scrisse il giornalista: “ogni cittadino ne vuole uno (bersagliere), se lo piglia a braccetto e lo conduce a desinare”.

La domenica successiva, 25 settembre, mentre il Segretario di Stato della Santa Sede, Cardinale Antonelli, (a destra) iniziò, in gran segreto, le trattative per la salvaguardia dei Palazzi Apostolici del Vaticano con il Segretario Generale del Ministero degli Esteri italiano, Alberto Blanc (a sinistra),– verosimilmente,  molti romani pensarono bene di far conoscere ai nostri militari le abitudini capitoline della “Scampagnata”. Sicuramente, quindi, già da quella prima domenica, i romani si diedero da fare per trasmettere ai nuovi arrivati la tradizione della gita fôri porta: pic-nic sui prati e scorpacciate in una delle tante osterie esistenti lungo le vie consolari. Alcune di queste osterie erano molto antiche, mentre altre sarebbero sorte di lì a poco con la grande espansione della nuova Capitale d’Italia.

Tanto per ricordarne una, storica, ci spostiamo sulla vicina via Salaria, tra via Arbia e via Nera, al civico 362 dove sorge la Palazzina Filomarino (nella foto una vecchia immagine della Palazzina Filomarino sulla Via Salaria).  L’elegante fabbricato che si vede adesso era un’osteria che prendeva il nome dai vecchi proprietari dell’edificio e si chiamava appunto “Osteria Filomarino”, gestita da un tale “sor Giovanni”; pare che il 18 settembre 1870 vi avesse pernottato Raffaele Cadorna (prima di trasferirsi nella più strategica – e confortevole – Villa Albani). Qualche tempo dopo ci si fermò a mangiare Garibaldi, rimanendo così soddisfatto da lasciarvi uno scritto di suo pugno, “Filomarino, i tuoi maccheroni sono i migliori d’Europa”, poi per anni sempre esibito ai clienti. Se siete curiosi, alla parallela successiva a via Nera, in via Filomarino, c’è ancora una “Locanda Filomarino” ma non crediamo sia dei discendenti del “Sor Giovanni”. E il menù, anche se squisito, non è certamente il medesimo.

Tornando sulla via Nomentana, un’altra traccia dell’Eroe dei Due Mondi è al n. 355 (subito dopo Sant’Agnese, dove oggi ha sede l’Istituto Marymount): appena arrivato a Roma perché eletto deputato al Parlamento, alloggiò là nel 1875; una lapide sul muro di cinta ricorda l’evento (guarda la foto).

Con il passare degli anni su questa strada le gite fôri porta diventarono sempre più frequenti a partire dal 25° anniversario della Breccia, il 20 settembre 1895, anno in cui la ricorrenza venne dichiarata festività civile.  Meta di tali scampagnate era fra le altre l’osteria che ci interessa di più, in quanto situata  proprio dove era partita la famosa cannonata del Segre.

Venne aperta nel 1889 col nome di  “Pozzo di San Patrizio”; ciò, per la presenza in loco di un pozzo di età romana (e forse anche per l’assonanza col nome della vicina Villa Patrizi); il poggetto da cui si era sparato rientrò così nel parco del locale. C’erano alberi, specie pini, che rendevano il posto più accogliente, si mangiava bene, il vino era buono: l’esercizio in poco tempo ebbe successo, tanto che, si raccontò, fu “attrezzato con palestra da ginnastica e tiro a segno, orchestra, illuminato a gas acetilene e frequentato fino alle due del mattino”! (in figura L’Osteria Pozzo di San Patrizio)

Un altro cliente lo descrisse così: “Locale in certe ore aristocratico, in certe altre di promiscua tonalità, spaziava coi suoi tavoli, le sue pergole, i suoi chiostri di verzura e le sue verande assolate su di una collinetta prospettante la costruenda via Alessandria. Attrezzato per banchetti e anfitrioneschi raduni, era preferito da una fedele clientela per i suoi ben mantenuti giochi di bocce e per le attrattive di un piccolo teatro di varietà bene esposto alla speculativa vista dei consumatori”.

Arriviamo così al 1904, spostandoci un attimo sul Gianicolo, il 24 gennaio, quando il pezzo di artiglieria con cui Segre aveva iniziato la battaglia di Porta Pia sembrò ricomparire. Quel giorno infatti per la prima volta la cannonata che a Roma dà il segnale del mezzogiorno (tradizione risalente all’Ottocento) venne esplosa da lì, sotto al monumento a Garibaldi; si dice che il cannone che la tirò fosse appunto quello. Poi di tale pezzo non si ebbero più notizie per parecchio tempo (vedi foto).

Ritorniamo al Pozzo di San Patrizio, locale sempre di successo, frequentato anche da noti intellettuali e artisti. Quattro mesi dopo la prima cannonata dal Gianicolo, il 24 maggio 1904, ai tavoli dell’osteria venne fondato il “Gruppo dei XXV della Campagna romana”, un sodalizio di buontemponi che decisero di fare ogni domenica una gita in campagna, dove ognuno avrebbe dipinto un quadro, per poi concludere la giornata nella stessa trattoria dove – presumibilmente fra abbondanti libagioni – sarebbe stato premiato il dipinto migliore.

Erano tutti bravi artisti: ad esempio il paesaggista Onorato Carlandi, detto “er capoccetta”, in quanto 24 soci lo acclamarono Presidente; fra gli altri c’era Cesare Pascarella, famoso poeta romanesco; nonché Ettore Ferrari, deputato repubblicano, Gran Maestro della Massoneria e rinomato scultore: a Roma era noto soprattutto per la statua in Campo de’ Fiori di Giordano Bruno, il grande pensatore di Nola lì bruciato come eretico nel 1600. Forse a lui pensò Ettore, quella sera del 1904, quando, lasciata l’osteria e gli altri 24 amici, se ne tornò a casa, magari un po’ brillo; per fortuna non dovette fare molta strada. Percorse corso d’Italia, passò fra la Breccia e la Colonna (allora collocata al centro della via) con in cima la statua della Vittoria alata, realizzata nove anni prima dal suo allievo Giuseppe Guastalla; giunse così accanto alla Porta Salaria  dove era stata ricavata, dentro le mura Aureliane, la sua casa/studio con giardino: lì viveva, creava le sue opere e teneva accese riunioni politiche coi compagni di fede.  (in figura: Ettore Ferrari nella sua casa/studio a Piazza Fiume)

Poi quella Porta, già demolita nel 1871 e rifatta dal solito Vespignani in stile neorinascimentale, fu definitivamente abbattuta; ma la casa no, lui continuò ad abitare lì, in  piazza Fiume, fino alla morte, nel 1929 (e forse anche … dopo: sembra che, ancora ai giorni nostri, la notte vi rimbombino rumori strani, pure se non c’è nessuno ….). Il Pozzo di San Patrizio chiuse nel 1922. La successiva demolizione fu opera di ferrovieri, molti dei quali lavoravano nella vicina sede delle FS, che si stava completando sul parco della demolita Villa Patrizi, in piazza della Croce Rossa. Tali lavoratori avevano infatti costituito una Cooperativa edilizia, denominata ovviamente “Porta Pia”, che acquisì osteria e terreno. La licenza di costruzione fu concessa a condizione che venissero salvati i pini presenti nel giardino e vi fossero, nel nuovo fabbricato, aperture per renderli visibili dall’esterno; è per questo che l’ingresso del palazzo non poteva essere un portone di legno, occorreva una cancellata.

Il socio più in vista della cooperativa era Luigi Velani, alto funzionario delle Ferrovie (di cui sarà poi, dal 1931 al 1943, Direttore Generale); come un suo nipote ha raccontato a chi scrive, tale cancellata fu disegnata da Mario Rappini (fratello di una futura nuora di Velani in foto) che diverrà un famoso scenografo di Cinecittà, lavorando con registi del calibro di Monicelli, Lattuada e Mattoli, e attori come Totò e Walter Chiari.  Il pozzo romano fu in parte demolito nel 1925, durante gli sterri per la costruzione del fabbricato; ma il poggetto e alcuni pini restarono lì, sempre più alti, facilmente visibili all’interno del nuovo comprensorio di via Nomentana 133, attraverso appunto la cancellata predetta; e lo sono tuttora.

Giungiamo così al 20 settembre 2020 quando – su iniziativa dei residenti e dell’Associazione Nazionale Artiglieri – è stata inaugurata una lapide in ricordo di Giacomo Segre, nonché del Caporale Piazzoli e altri due caduti del 1870, collocata nell’atrio del fabbricato, entrando a sinistra, vicino al poggetto da cui il Capitano ebreo aveva fatto partire il primo colpo della battaglia di Porta Pia. (in figura La Lapide in memoria del Capitano Segre)

Alla cerimonia è stato presente, oltre alla Sindaca ed altre Autorità, l’autore … materiale della cannonata,  un “12 cm bronzo rigato ad avancarica”, fuso nelle Acciaierie di Parma nel 1867 e montato su un fusto modello Cavali 1844 (a sinistra), che l’Esercito ha restaurato e custodisce presso il Comando Artiglieria di Bracciano.  Preferiamo infine – fermo restando il valore storico e simbolico dei fatti qui rievocati – concludere questo breve viaggio fra osterie e cannoni manifestando una netta preferenza per le prime; come ha ben detto l’attore e poeta trasteverino Checco Durante (a destra), riferendosi al pezzo che a mezzogiorno spara dal Gianicolo:

“quanno lo sento penzo co’ la mente
na prejera che viene su dar core
e mormoro: Signore!
Fa ch’er cannone serva solamente
pe’ dì all’umanità
che sta arrivanno l’ora de magnà”.

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