“Il Quartiere Coppede’ Tra Arte, Sogno e Fantasia” di Grazia Attili

Questo racconto si è classificato 1° nel concorso Premio AMUSE 2023.

Sono arrivati presto la mattina.  Sono entrati da via Dora, venendo da via Tagliamento.   Sono passati davanti alla Madonnella con il bimbo in braccio e poi sotto l’arco con il lampadario in ferro di stile barocco, sotto il quale si trova la dedica a Gino Coppedé

Si, proprio l’arco che unisce i due Palazzi degli Ambasciatori, così diversi nella loro pianta volutamente asimmetrica, una quadrata e l’altra ottagonale, con la fronte principale – quella obliqua rispetto al lato che fronteggia la discoteca del Piper Club – pensata, con le loro due torri, come una cattedrale gotica, sormontata da due campanili.

Da li sono giunti a piazza Mincio e hanno subito cominciato a smontare la Fontana delle Rane. L’hanno svuotata e hanno messo le quattro rane della prima vasca e le otto della vasca superiore in degli scatoloni, mentre le vasche le hanno poste in immensi contenitori di cemento.

Coloro che erano li a visitare il Quartiere Coppedè, gli abitanti dei villini attorno, i passanti, non capivano cosa stesse accadendo e si guardavano attorno smarriti.

Le donne che passeggiavano nella piazza ormai avevano smesso di ridere e i loro amanti non le baciavano più sul collo mentre loro ridevano.  I bambini avevano interrotto i loro giochi e si chiedevano anch’essi cosa stesse accadendo e come avrebbero potuto continuare a costruire favole con protagoniste rane, rospi e girini, ora che le rane non le potevano vedere più.

E tutti, allibiti, guardavano, ora, come dopo la fontana, gli stessi operai si accingessero a smantellare con cura gli edifici che circondavano Piazza Mincio, uno dopo l’altro, proprio quelli che Gino Coppedé, trapiantato da Firenze a Roma, aveva costruito a partire dal 1916.  Silenziosi e caparbi sembravano non tenere in alcun conto che ogni villino, ogni palazzo rappresentasse una meravigliosa architettura fusion, unica nell’intera Roma e nel mondo intero, quell’architettura che ormai era detta “Stile Coppedé’”.

Iniziarono dal Villino delle Fate, protagonista di piazza Mincio, con i suoi tre piani, archi, loggiati, torrette, finestre ricche di colonne che formavano trifore e quadrifore.  Neanche le sue pareti, affrescate in modo da sembrare una stampa degli anni ’20 o ’30, sembravano fermare la loro protervia mentre, pezzo dopo pezzo, mattone dopo mattone, “impacchettavano” la dimore delle Fate; né erano intimoriti dalle rappresentazioni di Dante e Petrarca sui muri, né dall’affresco del panorama di Firenze che Coppedé aveva voluto a ricordare la sua città.

Sembravano totalmente indifferenti ai decori floreali, propri del Liberty e dell’Art Nouveau, alle torrette che rimandavano a uno Stile Medioevale, al Neogotico delle finestre, al Barocco dei colori vivaci, dei fregi e dei bassorilievi, ai richiami dell’Arte Classica e Romana. Non erano toccati da quell’eclettismo che del resto caratterizzava tutti gli altri villini e palazzi del Quartiere Coppedè e che sembrava far vivere un sogno prima di svegliarsi.

Neppure il fatto che quello stile così onirico e visionario aveva ispirato tante ambientazioni cinematografiche di film che ormai facevano parte della storia e dell’identità di ognuno sembrava fermarli.  E tutti si chiedevano dove, in futuro, avrebbe potuto ambientare Dario Argento i suoi film horror, o dove tanti giovani registi avrebbero potuto ormai girare i film romantici che avevano trovato in piazza Mincio lo sfondo più adatto.

Dopo il Villino delle Fate, in un’atmosfera ormai irreale, gli operai avevano cominciato a smontare, pezzo dopo, pezzo l’edificio accanto: il Palazzo del Ragno.

Tagliarono e tolsero il mosaico sul portone principale, il ragno che bellamente dava il nome al palazzo, le teste delle fiere che sorreggevano il balcone centrale, le colonne ondulate ai lati dell’ingresso, e quel volto sull’arco, simile a quello che si trova all’ingresso del Quartiere.  E misero anche questi pezzi, con cura, in grandi contenitori.

Fu poi la volta del Palazzo Ospes Salve, con la scritta di “saluto all’ospite”, con il grande arco posto subito dopo i gradini di accesso, con l’interno nascosto tra volte orientaleggianti così da farlo sembrare un antro stregonesco.  Erano indifferenti al fatto che per il disegno di quell’arco e di quell’androne Gino Coppedè si era ispirato alla scenografia del film Cabiria, capolavoro del cinema muto del 1914, il cui titolo e sceneggiatura erano stati suggeriti da Gabriele D’Annunzio; si proprio quel kolossal sulla storia tragica di una schiava ai tempi dei romani, con la presenza anche di Maciste, .

E gli operai ignoravano peraltro che l’idea di un quartiere così come fu poi progettato era venuta al grande architetto proprio dalla vista di quel film, e che Gino Coppedé depositò subito dopo, nel 1916, la prima richiesta di concessione edilizia per la costruzione del nuovo ” Quartiere Doria”: 17 villini e 26 palazzine, avendo come epicentro la futura piazza Mincio, nella quale, alla fine dei lavori nel 1927,  fu posta al centro la Fontana delle Rane.

Un progetto visionario, esoterico quello di Gino Coppedè.  Egli, infatti, costruì il quartiere secondo i dettami di un percorso iniziatico; nelle decorazioni dei villini e dei palazzi sono rintracciabili, pertanto, continuamente figure allegoriche proprie di un’opera alchemica, giocata su una contrapposizione ripetuta tra elementi opposti, che da quelle figure sono rappresentati (il finito e il non finito, la luce e il buio, il maschile e il femminile, l’acqua e il fuoco).  E non a caso, negli ultimi anni della costruzione della sua opera, Coppedè venne aspramente criticato dagli architetti romani che lo vedevano non in linea con le nuove direttive razionali del regime e dell’architettura fascista.

Dopo lo smantellamento del Palazzo Ospes Salve, però, tra coloro che si trovavano nella piazza, alcuni cominciavano a protestare a viva voce, altri chiedevano spiegazioni, altri cercavano di fermare l’opera di demolizione, altri ancora iniziarono una sommossa.

E fu a questo punto che il più alto e nerboruto degli operai, forse il loro capo, incominciò a parlare e disse: “Non stiamo distruggendo queste opere. Stiamo solo smontandole per poterle spostare in altre parti della città. Le riassembleremo per un po’ in un quartiere di Roma sud, poi le sposteremo nella parte est della città, poi troveranno spazio ad ovest, poi più a nord.  E infine le porteremo di nuovo qui!”

“Ma perché? Ma perché? “ gridavano tutti.

“Perché il quartiere Coppedè è il più bello della città ed è giusto che diventi itinerante così che anche altre parti di Roma possano godere della sua bellezza, perlomeno per un po’”.

Grazia Attili

Grazia Attili è Professore Emerito di Psicologia Sociale, Sapienza Università di Roma

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